Salute

I media stanno normalizzando la guerra. Una macchina infernale!

di Enza Plotino

Se oggi dovessimo cambiare le favole che leggiamo ai nostri figli prima di addormentarsi, allora dovremmo mettere l’elemetto alla strega cattiva, dare in dotazione ai sette nani pistole per difendersi dall’invasione di Biancaneve e cospargere di mine la strada del principe che deve salvare la bella addormentata. Perché è quello che sta succedendo in questi ultimi anni davanti ai nostri occhi: una sospensione della realtà, o meglio quella che noi conoscevamo come la realtà, a favore di una “simulazione della libertà” in cui lo specchio deformante del sistema mediatico seleziona ciò che può esistere nello spazio pubblico della parola. E la parola chiave di questa narrazione ormai dominante è evocazione.

Certo giornalismo italiano sta velocemente diventando un’arma di distrazione e di consenso attorno a un ordine mondiale che contempla il ritorno alla guerra come effetto collaterale per dirimere i conflitti. Nel sistema mediatico si muove una vera e propria macchina da guerra vastissima, fatta di testate, redazioni, agenzie stampa, interessi energetici e accordi politici. E i produttori di armi gioiscono.

Ricchi sempre più ricchi a causa del modello mondiale che si va configurando. Una tensione verso la guerra che sta attraversando anche i Paesi democratici più lucidi e avvertiti e che ha l’effetto di arricchire chi “commercia con la morte”, come si diceva in tempi passati. Una “direzione intellettuale e morale” che il blocco dominante esercita attraverso la cultura e i media, prima ancora che con la forza. Lo diceva Gramsci ed oggi ridiventa attualissimo nell’era della post verità.

Tutti i giornalisti arruolati con il compito storico di “normalizzare” uno stato di sospensione in cui rendere dicibile e accettabile, l’indicibile. E così, l’atto terroristico contro Israele del 7 ottobre, evocato un giorno sì e l’altro pure, diventa un crimine contro l’umanità, mentre i centomila palestinesi morti risultano essere “la risposta” di un Paese ferito. Una sproporzione assurda e vergognosa che però, nel sistema anche simbolico dei media, soprattutto televisivi, diventa verità.

Non vedremo mai le immagini di quel 7 ottobre, ma basterà evocarle per soppiantare quelle vere che arrivano dalla Palestina, da Gaza e dalla Cisgiordania. Il silenzio diventa elemento narrativo, così come la selezione dell’informazione. Il montaggio televisivo diventa esso stesso geopolitica. Quella di Israele è “la voce della democrazia ferita” quindi titolare legittimo del dolore, mentre Gaza rimane “fuori campo” priva di volto e di parola e quindi sacrificabile. E’ la “barbarie della cultura” come spiegava Adorno. Una macchina infernale di rimozione e normalizzazione per costruire il terreno adatto alla strategia militare e manipolare il consenso verso la guerra.

Poche voci si levano per gridare al complotto globale per innescare un nuovo ordine simbolico. Tra queste, le migliaia di giovani che non si fanno irretire dai media nazionali perché da molto tempo hanno smesso di guardare la televisione, vecchio arnese per vecchi rincoglioniti e scelgono su Internet e sulle piattaforme ciò che vogliono guardare e comprendere. Sono loro che scendendo in piazza, sfidano l’ordine simbolico guerrafondaio, i produttori di armi, le egemonie politiche per agitare la verità e salvarla.

Le giovani generazioni saranno in grado di contrastare un consenso che ormai non si costruisce più solo con il manganello ma a suon di fotogrammi, scelta dei verbi, gerarchia dei corpi? Una cosa è certa: solo questa variopinta, intelligente, informata umanità potrà salvarci dalla china verso cui gli Stati moderni stanno drammaticamente scivolando.

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