Ambiente

I dazi e la crisi della fiscalità internazionale

La fiscalità internazionale paga dazio. Ci sembra questa l’espressione che meglio sintetizza la grave crisi che sta vivendo il fisco internazionale, crisi oggi messa in luce dalle iniziative dell’Amministrazione Trump ma con radici più profonde, figlie della inadeguatezza delle regole attuali a intercettare e tassare in modo equo ambienti e fenomeni sempre più complessi e immateriali. La fiscalità di oggi non “dialoga” con lo spazio cibernetico e l’intelligenza artificiale e più che di iniziative multilaterali legislative o di soft law per limitare e regolare la sovranità fiscale degli Stati (a questo servirebbe il diritto tributario internazionale), si parla di accertamenti, a volte anche bizzarri. Ci si riferisce alle recenti verifiche sui social network che provano a quantificare, ai fini Iva, il valore dei dati personali in apparenza gratuitamente concessi dagli utenti alle piattaforme che però non sembrano considerare che i dati non sono gli unici fattori della produzione di queste aziende, che si nutrono di brevetti e algoritmi, e che il valore non è creato “solo” dalla partecipazione degli utenti. Inoltre, ammesso che si riesca nel complesso esercizio di determinare un valore attendibile, occorrerebbe accertare anche gli utenti che, nella prospettazione del fisco, riceverebbero una controprestazione in natura. Altra testimonianza dell’assenza di veri interventi riformatori è l’imposta sui servizi digitali, che era partita come imposta provvisoria ma oggi nei fatti è l’unica forma nuova di tassazione dell’economia digitale, assisa, peraltro, ironia della sorte, su una logica (tassazione dei ricavi da servizi digitali) che va in corto circuito rispetto agli accertamenti Iva ai social network. Certo, poi c’è la minimum tax al 15% del pillar 2, ma a fronte del costosissimo sforzo di attuazione di questo cervellotico meccanismo, oggi sembra che le nuove regole siano confinate in Europa e che producano aspettative di gettito molto deludenti.

Ma torniamo agli Stati Uniti e ai dazi. La storia economica dimostra come anche le guerre tariffarie, come le guerre vere e proprie, non hanno né vinti né vincitori e possono causare danni anche ai Paesi che le originano (si pensi solo alle spinte inflazionistiche dovute all’aumento dei prezzi o ai danni alle industrie europee di proprietà americana). Tuttavia, gli Stati Uniti non si stanno limitando ad imporre dazi, ma guardano anche alla fiscalità diretta. Tra le misure di “ritorsione” della (vecchia, è del 1934, ma mai usata) sezione 891 del codice tributario spunta anche la maggiorazione delle ritenute sugli utili Usa che tornano in Europa, che, dimenticando le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, può arrivare fino al 60 per cento.

L’obiettivo della ritorsione, anche se non chiarissimo (un po’ come quando erroneamente si paragona l’Iva europea, che è un tributo neutrale, a un dazio), sono proprio le imposte sui servizi digitali e la minimum tax del pillar 2 di cui si diceva.

Ecco allora che la vera risposta alla crisi della fiscalità internazionale dovrebbe essere quella di “scompaginare le carte” e perseguire idee nuove ed europee, che prendano atto della rilevanza di attori economici non territoriali e non statali che producono ricchezza da assoggettare ad imposizione in un’ottica di una più equa redistribuzione della ricchezza stessa. Una via europea con intendimenti non dissimili da quelli del pillar 1 Ocse, che però sembra fermo, facendo leva sul fatto che la politica commerciale è competenza dell’Unione e che è giunto il momento di cercare convergenza tra i Paesi membri anche sulla fiscalità diretta. Non solo sulla tassazione su base consolidata (Befit) ma anche su concetti come stabile organizzazione (o, più semplicemente,“presenza”) digitale, nuove regole di transfer pricing (che oggi devono dialogare anche con i dazi, peraltro), sorte del Pillar 2 (forse bastano le regole Cfc, visto che gli Usa tengono stretto la loro Gilti), dalla estensione più marcata ai Paesi membri dei programmi di cooperative compliance e, perché no, misure di attrazione di investimenti. E’ un compito difficile ma i punti di (ri)partenza da affrontare li sappiamo e passano dall’abbandono dei confini territoriali della tassazione, da cosa si intende per value created, dalla effettiva valutazione se sia così decisiva la partecipazione degli utenti alle piattaforme, dal destino dell’imposta sui servizi digitali, fino a capire se non è forse giunto il tempo di passare ad una una concezione puramente oggettiva del reddito basata su una sua ripartizione formularia (formulary apportionment), coordinata con la proposta Befit e con le regole di transfer pricing di cui si diceva.

 


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