I dazi al 35%, la sfida di Trump e il nodo dei 600 miliardi: cosa rischia l’Europa
Il 27 luglio 2025, a Turnberry, in Scozia, Ursula von der Leyen e Donald Trump avevano annunciato con enfasi un’intesa provvisoria: 600 miliardi di dollari di investimenti europei negli Stati Uniti nei prossimi quattro anni, in cambio della riduzione delle tariffe doganali dal 30 al 15 % su una vasta gamma di beni industriali.
Ma appena 24 ore dopo, Bruxelles aveva già ridimensionato l’annuncio: nessun fondo pubblico, nessuna garanzia formale, solo intenzioni del settore privato. Trump, fedele alla sua diplomazia muscolare, aveva avvertito che se la cifra non fosse stata raggiunta, i dazi sarebbero schizzati al 35%. Il messaggio era chiaro: “O pagate o pagate il prezzo”. Fonti della Commissione ammettono ora che l’impegno è stato calcolato aggregando “promesse” di associazioni industriali e piani di investimento già annunciati. Non esiste un meccanismo per obbligare le imprese europee a investire negli USA, né fondi UE dedicati a questo scopo.
Intanto, salvo colpi di scena, le auto e i farmaci che l’Ue esporta negli Stati Uniti d’America verranno sottoposti “molto presto” ad un dazio “omnicomprensivo” del 15%, inclusa la tariffa della nazione più favorita. Sui due settori che hanno spinto l’Ue a stringere l’accordo di Turnberry, come ha detto il segretario Usa al Commercio Howard Lutnick, per evitare che la produzione migrasse negli Usa, l’amministrazione americana ha in corso indagini in base all’articolo 232 del Trade Expansion Act: su entrambi, ha spiegato un alto funzionario Ue, Bruxelles ha ricevuto l’assicurazione che il dazio che verrà imposto al termine delle indagini per l’Europa non sarà superiore al 15%.
Ma occorre comunque fare i conti della serva perchè Turnberry funzioni. Oggi, gli investimenti diretti annuali europei negli Stati Uniti oscillano fra i 150 e i 205 miliardi di dollari. Per raggiungere i 600 miliardi in quattro anni, servirebbe mantenere il livello più alto della forchetta e incrementarlo sensibilmente, in un contesto di crescita lenta e tassi ancora elevati. In assenza di nuove politiche di incentivo, l’obiettivo sembra più una proiezione ottimistica che un traguardo realistico. Togliendo i 53 miliardi di dollari dal Regno Unito, la cifra dell’UE si avvicina ai 150 miliardi di dollari. Le aziende europee, dunque, dovrebbero più che raddoppiare la loro spesa per investimenti ogni anno fino al 2028 per stanziare 600 miliardi di dollari in più. Anche l’interpretazione più modesta dell’accordo implicherebbe un aumento sostenuto di un terzo rispetto ai livelli del 2024. Questo è tanto improbabile quanto l’altrettanto rischiosa promessa europea di importare energia americana per un valore di 750 miliardi di dollari.
L’accordo può generare un effetto collaterale pesante: capitali sottratti a investimenti domestici cruciali. L’UE sta cercando 620 miliardi di euro l’anno fino al 2030 per finanziare la transizione verde e digitale. Spingere imprese e fondi europei a investire oltreoceano rischia di allargare il divario e rendere più vulnerabile la manifattura europea. Secondo la Banca Europea per gli Investimenti, già oggi il gap per la transizione energetica è superiore ai 250 miliardi annui.
L’intesa non è stata formalizzata come trattato commerciale: è politicamente vincolante, ma giuridicamente evanescente. Questo concede a Trump la facoltà di rimettere mano alle tariffe a piacimento se l’UE non rispetta – secondo i suoi parametri – l’impegno. È una leva negoziale che può essere riattivata a ridosso delle elezioni USA del 2028 o in caso di dispute su altri dossier, dal clima alla Difesa.
Gli analisti indicano tre mosse immediate: accelerare la Capital Markets Union per trattenere capitali in Europa, rafforzare il ruolo della Banca Europea per gli Investimenti come catalizzatore di investimenti privati interni e legare gli incentivi pubblici al reinvestimento in filiere strategiche europee.
L’Ue, intanto, si prepara a pubblicare una dichiarazione congiunta con gli Usa che includerà impegni su regolamenti come il Cbam (il dazio carbonico europeo) e la normativa sulla deforestazione, senza però concedere trattamenti preferenziali a Washington. L’obiettivo è semplificare norme già riviste con i provvedimenti Omnibus, a beneficio di tutti i partner.
Secondo il commissario al Commercio Sefcovic, l’Ue ha scelto un accordo “second best” con Trump per ragioni strategiche legate non solo al commercio, ma soprattutto alla sicurezza europea e al destino dell’Ucraina.
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