I conti sono in ordine ma la fabbrica chiude (come Beko e le cartiere a Fabriano). Le multinazionali cercano una redditività ancora più spinta
ANCONA Il metodo persiste sul perpetuarsi del danno: reazioni al problema, mai strategie. L’esempio è dietro l’angolo, nella martoriata, da decenni di crisi industriali, Fabriano. Si parte da lontano: da vent’anni si susseguono gli appelli a consumare meno carta. Si sollecita un’azione per proteggere le risorse boschive, considerato che una famiglia di quattro persone, ogni anno, ne usa una quantità pari a quella prodotta da due alberi. Per ricavarne una tonnellata occorrono 440mila litri di acqua e per un grammo vengono emessi 0,70 grammi di anidride carbonica. Morale: che le risme per le fotocopie, nel tempo, sarebbero cadute in disgrazia, e con loro anche la fabbrica che le produce, si sarebbe potuto intuire.
La fine
Stop. Quel momento è arrivato, con tanto d’immancabile canovaccio di barricate/resistenza per arginare l’emergenza: la Giano, che gestisce le cartiere, ferma la storica macchina continua F3. La fine di un’era. Scatta la ricollocazione per 172 dipendenti. Sui titoli di coda, emerge il paradosso: la società in liquidazione è una costola di Fedrigoni, terzo attore globale nei materiali autoadesivi e leader europeo nelle carte speciali, con 4.000 lavoratori, 34 stabilimenti produttivi e centri di taglio nel mondo. È di tre giorni fa la notizia che ha chiuso il terzo trimestre, in crescita, a 1,37 miliardi di ricavi. È vivo e vegeto, il Gruppo, ma sacrifica Fabriano. Una scelta che esula dal dato congiunturale negativo, piuttosto è una mossa in prospettiva, in cerca di una redditività più spinta, giocata sulla pelle dei lavoratori.
Spostando il navigatore a sud, rimanendo sempre nell’entroterra, arriviamo alle 332 anime, linfa e fatica, dello stabilimento Beko Europe di Comunanza. Sul loro futuro, nella fabbrica di Villa Pera, la multinazionale turca ha fatto calare la tagliola: chiusura al 31 dicembre 2025. Una sentenza legata al filo esilissimo d’una trattativa e di una data: seconda metà di gennaio.
Gli ingranaggi
Con il paradosso si replica: tutti i dipendenti sono impegnati a orario pieno e non c’è stato alcun ricorso alla cassa integrazione. Per un paio di mesi gli ingranaggi di quell’impianto industriale, condannato all’oblio, hanno girato anche il sabato, su richiesta dell’azienda. Le cifre sono tutt’altra trama: quest’anno si produrranno circa 620mila elettrodomestici, tra lava-asciuga e lavatrici, gli stessi livelli dello scorso anno. L’interrogativo si propaga, come una nenia, in quella terra già ferita, nel profondo, dal terremoto 2016: perché dovrebbe chiudere un opificio che avanza nel verso giusto, molto e bene?
La storia si ripete, ma insegna poco. È di tre anni fa il ridimensionamento della Elica, leader mondiale delle cappe aspiranti. Niente esodi, ma il filtro gentile delle uscite volontarie, con la promessa solenne che alcune produzioni sarebbero state riportate in patria, nelle Marche. Reshoring. Le coordinate di crisi anche allora insistevano sulla Fabriano-senza-pace. Identica è l’incongruenza: il marchio tecnologia&design aveva i conti in ordine. Ci risiamo: è una questione di prospettive. Sollecita la memoria, Pierpaolo Pullini della Fiom-Cgil: «Era il 9 dicembre del 2021 quando firmammo l’accordo, robusto». Ne ricorda i passaggi: «A inizio trattativa erano stati annunciati 400 esuberi, siamo arrivati a 160 uscite volontarie, con l’impegno che 50 dipendenti sarebbero stati assorbiti da Ariston Group, e così è stato». Il sindacalista evidenzia l’equilibrio raggiunto: «È stato riportato in Italia l’alto di gamma prodotto in Polonia e sono stati spostati a Mergo i piani cottura di Cerreto d’Esi, che è stato chiuso». Imprime il sigillo, Pullini: «Si è agito intorno a un piano industriale serio, non solo annunciato». Chiusa una voragine se n’è aperta un’altra. Era il 10 dicembre 2022, quando, con la prepotenza di un fulmine, a Jesi, il direttore dello stabilimento di Caterpillar, multinazionale americana, annunciava l’intenzione di chiudere, rischiando il linciaggio fuori dai cancelli. Erano 270 i posti coinvolti nella crisi. Seguirono mesi di proteste, di battaglie dei lavoratori che producevano a pieno ritmo, cilindri oleodinamici, stoppati da una voce fredda che usciva da un megafono. Imr-Industrialesud, quartier generale a Carate Brianza, acquisì lo stabilimento.
Va oltre gli inciampi delle contraddizioni, l’economista Ilario Favaretto: «I capitali vanno e vengono. Le operazioni finanziarie non sono una garanzia, un’assicurazione per la vita. Si può acquistare un brand per far chiudere un concorrente oppure per garantirsi quote di mercato». Il prof, esperto di distretti&filiere, arriva allo snodo: «L’importante è comprendere le motivazioni di una eventuale fuga post-acquisizione. Bisogna capire quali sono le variabili negative che la condizionano».
La sintesi
Il suo è un giudizio laico: «Bisogna prendere atto che siamo una regione che ha ridotto la sua attività economica. Le aziende che lasciano il territorio sono il sintomo di un male, che va individuato». Lucida è la sintesi: «Va ricostruita una economia, che nel passato era molto fiorente. A un passo dalle elezioni regionali, la ricerca del consenso dovrebbe andare in questa direzione». Per invertire l’ordine dei fattori: strategie, non più solo reazioni al problema.