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I Cavalieri dello Zodiaco: 40 anni di Saint Seiya tra mito e adolescenza | Il Fatto Quotidiano

Quando le gesta di Pegasus e compagni debuttarono su Weekly Shōnen Jump nel dicembre 1985, il mangaka Masami Kurumada era considerato un autore di successo, ma non necessariamente un virtuoso: il suo tratto era asciutto e spigoloso, le anatomie rigide, e anche la trama dei suoi shōnen seguiva una struttura formulaica, fatta di tornei, sfide e dolori più o meno grandi della crescita. Brillava per l’intensità nella caratterizzazione dei personaggi e del loro mondo emotivo. Da questa peculiarità nacque l’intuizione che segnò la sua carriera: unire l’immaginario classico occidentale – costellazioni, dèi e templi – con l’etica cavalleresca del sacrificio e dell’amicizia, una tensione morale che attraversa la cultura occidentale dal Medioevo al Romanticismo. Nello specifico, ideò cinque giovani guerrieri al servizio di un ideale superiore, dotati del potere delle stelle da una dea Atena reincarnata.

Quella commistione tra epica greca e spirito samuraico catturò l’attenzione di colossi come Toei Animation e Bandai, che ne modellarono la forma definitiva. Toei produsse un adattamento animato e raffinò i disegni affidandoli allo stile elegante del leggendario Shingo Araki, Bandai impose maggiore dettaglio e trasformabilità alle armature dei protagonisti – le celebri Cloth – concepite per diventare giocattoli da montare e smontare.

L’anime ebbe grande impatto anche in Italia, dove arrivò come I Cavalieri dello Zodiaco, e venne impreziosito da un doppiaggio “adulto” che ne esaltò gli aspetti più aulici e letterari. Diretto da Enrico Carabelli e costellato da interpretazioni memorabili – come quella di Ivo De Palma nei panni del protagonista – che riuscirono a dare alla serie una solennità unica, al punto da far citare Dante ai personaggi dove possibile, il cartone venne interrotto ai due terzi della storia originale, decisione che paradossalmente ne cementò lo status di leggenda incompiuta.

Da lì in poi la saga proseguì la sua traiettoria transmediale ma incerta. Dopo il manga originale arrivarono Episode G, Lost Canvas e infine Next Dimension, la tanto attesa conclusione a opera di Kurumada, che prometteva di dare un senso definitivo al percorso di Pegasus e compagni. Nessuno di questi sviluppi, però, ha saputo ritrovare la purezza originaria del primo Saint Seiya, il cui segreto era aver raccontato l’adolescenza come una battaglia sacra.

I protagonisti – Seiya di Pegasus, Shiryu il Dragone, Hyoga del Cigno, Shun di Andromeda e Ikki di Phoenix – sono ragazzini che portano sulle spalle il peso di un mondo sull’orlo costante della punizione divina. La loro devozione all’ideale di giustizia incarnato da Atena/Saori è la proiezione di una gioventù che crede ancora nella purezza degli ideali. Tutto in Saint Seiya ruota attorno allo scontro tra questo ardore giovanile e l’autorità di chi è venuto prima: i Cavalieri d’Oro, nobili ma corrotti dal dogma; l’elegante Julian Solo/Nettuno, privo di compassione nelle sue volontà di espansione; Ade, la Morte stessa, simbolo della fine di ogni aspirazione vitalistica e ideale. Gli dèi di Kurumada sono giudici intransigenti, incapaci di comprendere il valore dell’errore, che è invece il motore della crescita, e incarnano il mondo adulto nella sua forma più rigida, quella pronta a punire i giovani per la loro ostinata fiducia nell’umanità.

Ecco perché il discusso finale di Next Dimension, con la perdita di memoria dei Saint e della stessa Atena, è apparso a molti come un tradimento. In realtà, rappresenta probabilmente l’esito più coerente con il sottotesto drammatico dell’opera: dopo decenni di battaglie, Seiya e i suoi compagni dimenticano sofferenze, amicizie e trionfi, puniti da Apollo, incarnazione della razionalità adulta che cancella i miti dell’adolescenza imponendo l’ordine della ragione sui sogni.

L’oblio, in fondo, è la forma più crudele di crescita. La memoria dei sogni si spegne, la razionalità prende il sopravvento, e l’eroe si scopre un essere umano. Kurumada, con quella scelta empatica, sembra quasi riflettere su se stesso: un artigiano inciampato nelle costellazioni e nei loro miti, autore di una risoluzione che il pubblico non vuole accettare.

Dopo quarant’anni, Saint Seiya continua dunque a vivere nel paradosso che l’ha generato: un’opera sull’adolescenza condannata a non poter crescere mai. Ogni remake, ogni sequel promesso è come un Fulmine di Pegasus lanciato contro il tempo, nel tentativo di sospenderne il tramonto. È questo il dono più grande che i Santi di Atena offrono ai fan da quarant’anni, e al tempo stesso la loro maledizione: l’illusione consolatoria che gli eroi possano restare sempre giovani e belli finché affrontano le avversità accanto agli amici, uniti da un ideale condiviso, in nome di un sogno che non gli è concesso dimenticare, neanche se è l’autore stesso a volerlo.


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