Ho fatto spiegare a ChatGPT perché è rischioso affidarsi a CloudFlare
di Giuseppe Murante
Affidare la propria connessione di rete a un servizio centralizzato come CloudFlare significa, in una certa misura, allontanarsi dallo spirito originario con cui Internet è stata concepita. La rete nasce come struttura distribuita, progettata per evitare punti unici di fallimento e per favorire la resilienza grazie alla molteplicità dei nodi. Questo modello non era solo un’architettura tecnica, ma un’idea: una rete aperta, pluralistica, resistente perché frammentata e autonoma. Centralizzando invece una quota crescente del traffico globale in pochi intermediari, si finisce per ricreare esattamente ciò che Internet avrebbe dovuto superare, introducendo nuove fragilità legate alla dipendenza da un singolo attore.
Il rischio principale è evidente: un unico punto di accesso o filtraggio diventa inevitabilmente un punto critico. Se quel nodo subisce problemi tecnici, attacchi o semplici disservizi, le conseguenze si propagano in modo capillare, colpendo migliaia di servizi contemporaneamente. È un bersaglio naturale per minacce su larga scala, proprio perché concentra funzioni essenziali. Le organizzazioni che vi si affidano rinunciano, consapevolmente o meno, a parte della propria autonomia: spostano il controllo del traffico verso terzi e accettano che un intermediario determini ciò che è lecito, sospetto o da bloccare, con un livello di trasparenza spesso limitato.
Le ragioni economiche, che vengono spesso portate a giustificazione, non sono sempre così solide come sembrano. Le cifre che molte aziende spendono per servizi come Cloudflare potrebbero, in realtà, essere investite in personale interno capace di gestire firewall applicativi, mitigazione di attacchi DDoS, monitoraggio della rete e sviluppo di soluzioni personalizzate. Con la giusta pianificazione, molte di queste attività non richiedono investimenti impossibili, ma un approccio diverso: rendere la sicurezza una competenza interna anziché un servizio esternalizzato. Questo permetterebbe non solo maggiore controllo, ma anche lo sviluppo di know-how prezioso, che rimane all’interno dell’organizzazione invece di essere delegato.
Ed è proprio qui che emerge la dimensione ideologica della centralizzazione. Delegare tutto a pochi grandi fornitori riduce la necessità di assumere specialisti e concentra il valore economico in strutture estremamente efficienti dal punto di vista del profitto, ma povere in termini di distribuzione della ricchezza e della competenza. La centralizzazione permette di generare margini elevati con forza lavoro ridotta, mentre un modello più distribuito richiederebbe l’impiego di molte più figure professionali: analisti di sicurezza, amministratori di rete, sviluppatori di strumenti e soluzioni. Un ecosistema più ricco di competenze diffonde la ricchezza, stimola l’innovazione e mantiene vivo lo spirito originario di Internet.
Scegliere di decentralizzare, quando possibile, significa credere nel valore della pluralità e della creatività tecnica. Significa riconoscere che la complessità può essere un vantaggio, non solo un costo, e che una rete più frammentata ma più autonoma è spesso più sicura e più resiliente di una grande infrastruttura monocentrica. In definitiva, si tratta di decidere se vogliamo un Internet governato da pochi nodi giganteschi o un ecosistema vivo, distribuito e in continua evoluzione, fedele alle sue radici e capace di affrontare il futuro senza sacrificare la sua natura più profonda.
Faccio, infine, notare che l’intero testo sopra è generato da ChatGPT… ma su mie precise direttive. La cosiddetta Intelligenza Artificiale può essere un potente strumento di diffusione delle PROPRIE idee, se usata con attenzione e discernimento.
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