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Gwen Stefani: «Quando sono in difficoltà prego. Ognuno ha un piano divino nella sua vita, solo che spesso non si capisce»

La verità è che delle popstar sappiamo troppo poco. O meglio: sappiamo male. Prendiamo Gwen Stefani, che ok, è un’icona dello star system statunitense, da milioni di copie vendute e almeno due canzoni – Rich Girl da solista, Don’t Speak con i suoi No Doubt nella vita precedente: e ci teniamo bassi – che sono hit immortali. Ecco, per esempio, si fa una fatica immane a capre com’è che la ragazza che faceva rock e ska da liceo sia finita nel pop d’alta classifica, specie perché la risposta, quando glielo si chiede, ha a che fare con «la fede». Approfondiremo. O ancora le relazioni sentimentali, che come sempre vengono mangiate dal gossip, e invece sono state il motore, dice, della sua musica. «Ma prima ho dovuto guarire». La chiave di volta di tutto questo, forse, è il nuovo album Bouquet, «il disco più nudo a cui ho mai lavorato», in cui dismette i panni della diva per indossare quelli da cantautrice rock. Cioè, a vedere la cover in cui ha una mise da cowgirl viene da pensare al country in realtà, un genere che peraltro sta tornado nel mainstream di tutto il mondo grazie a Taylor Swift e lavori come Cowboy Carter di Beyoncé. «Ma questo», aveva già avvisato, «non è un disco country». Ora aggiunge: «Non mi piace molto quella musica, anche se sono più cresciuta con il folk».

E questo, al di là di tutto, è un ritorno alle sue origini rock, con i No Doubt. Giusto?
«Per certi versi sì, per altri è una rinascita personale. Ho cominciato a scriverlo quattro anni fa, in contemporanea a quando mi sono fidanzata con mio marito – l’essere umano più amorevole, speciale e sostanzialmente migliore che conosca. (Ride) Ci siamo sposati da tre anni ed è stata un po’ una chiusura di un cerchio, a livello artistico. Odio la parola “divorzio”, ma l’ultimo disco d’inediti a cui avevo lavorato prima, nel 2016, era nato proprio per raccontare la separazione dal mio ex».

Aveva detto: «Pensavo che sarei morta».
«È stato un momento impegnativo, traumatico. Quando ci sono di mezzo i figli non è facile. E mi è servito tempo, letteralmente, per guarire. Poi però è arrivato un nuovo amore, che credo fosse nei piani, a rimettere insieme le cose. È stato un regalo di Dio, che mi ha ispirato nuova musica».

Foto di Ellen Von Unwerth.

Foto di Ellen Von Unwerth.

E si è rimessa al lavoro.
«Nel 2017 avevo fatto un disco di canzoni di Natale, un’esperienza bella e divertente, ma sentivo la necessità di lavorare ancora. Di mezzo c’è stata la pandemia, che da un lato ha alimentato questa necessità ma dall’altro ha reso i progetti più difficili. Facevo sessioni su Zoom per la scrittura e… non andavano, non era facile organizzarsi. Però procedere per tentativi, insomma sbagliare, fa parte del mio percorso. Ormai l’ho accettato. Quindi sono andata avanti comunque».

Ne è uscito fuori un disco, direi, di folk-rock adulto, abbastanza classico. Appunto: la musica che sentiva da bambina.
«Bob Dylan su tutti, che era l’artista preferito di mio padre, che tra l’altro aveva origini italiane. Ma in realtà credo poco alle etichette, anzi mi dà fastidio, se posso, la necessità di metterne a tutti i costi. Penso che la musica, di base, sia fluida: poi dipende come uno la veste, queste canzoni potevano suonare disco come rock classico, che poi è il modo in cui penso suonino davvero».

E perché proprio quest’abito?
«Perché dopo questo periodo, diciamo, intenso, avevo voglia di tornare allo spirito di quando avevo cominciato. Non a livello di suoni, ma proprio di atmosfera. Alla base è un disco pop, scritto con alcuni degli autori pop di oggi che reputo brillanti, ma una volta finito l’ho ri-registrato a Nashville. E lì davvero si è riacceso qualcosa».

Com’è andata?
«Ho chiamato, appunto, dei veri musicisti rock, ciascuno con una personalità netta, che potesse dire la sua. Abbiamo fatto tutto in due giorni: provavano le canzoni un paio di volte, poi via a registrare tutti insieme, dal vivo, senza l’aiuto delle macchine (o comunque al minimo). È stato come tornare in sala prove con i No Doubt, quando i nostri dischi sembravano live anche se erano in studio».

Si è trovata diversa?
«Più consapevole. Il mio vero tormento, le assicuro, è di restare chiusa in un personaggio, sempre allo stesso posto. Così come detesto i confronti con la me del passato, dover essere migliore di lei in qualcosa. Ho voluto solo raccontare la me stessa di oggi, liberarmi, ma farlo con la musica di allora, cioè la ska, sarebbe stato ridicolo: tutti cambiamo, cresciamo, impariamo, cambiamo idea. L’unica cosa da fare, per non ripetermi, era un album così nudo».

Permetta, però: ma non sente mai il rischio di disorientare? Insomma, la Stefani di Rich Girl può non essere compatibile con questa.
«Preferisco non ripetermi, a rischio, sì, di disorientare. È chiaro che qui è tutto suonato dal vivo ed è l’esatto contrario di quanto avveniva in Love. Angel. Music. Baby., il mio esordio solista del 2004, quello di Rich Girl. Ma ci sta: il punto di contatto sono io, il mio corpo, la voce, la faccia; mi sento un tramite, ogni volta che viene fuori un pezzo è come se quell’idea fosse stata mandata giù da Dio e abbia deciso di “usare” me per portarla avanti».

Crede che ci sia «un piano»?
«Ne sono certa, per tutti. Il punto è che spesso non si capisce prima. Anche della stessa Rich Girl, per esempio, non ero affatto convinta. La mia etichetta stava lavorando con Dr. Dre, che aveva avuto l’idea per il testo. Me lo proposero: “Se fossi ricca…. na na na“. Sinceramente: non mi sembrava una grande idea, anche perché ero già ricca. (Ride) Invece poi mi arriva il beat, ricordo che ero in tour in Europa, su un tapis roulant, quando l’ho ascoltato è subito partita la scintilla. C’è un momento esatto, bene o male, in cui i pianeti si allineano, mi sento al posto giusto, mi sento “scelta”, e mi lascio andare. Anche in Bouquet la decisione di mettermi a nudo con un disco così suonato è arrivata in questo modo. Uno dice: come faccio a saperlo? Be’, quella è fede, preghiera. Per me è la chiave».


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