Guerre calde e guerre fredde, ma la cooperazione internazionale non è (ancora) morta
Le guerre guerreggiate, come quelle in Ucraina e in Medio Oriente. Le guerre “tiepide”, come quella tra Stati Uniti e Cina alla frontiera della tecnologia. La crisi delle grandi potenze e delle organizzazioni multilaterali. Il mondo si sta frammentando, un riflusso della globalizzazione in mezzo a cui aumentano rischi, tensioni e insicurezza. Ma in questa fragile transizione verso un nuovo ordine, o un nuovo disordine, la cooperazione internazionale non è morta, anzi mostra segni di resilienza. A suggerirlo, con un messaggio che di questi tempi risulta in controtendenza, è un nuovo Barometro della cooperazione globale lanciato dal World Economic Forum e da McKinsey. Che misurando 45 indicatori, divisi in cinque grandi pilastri (commercio, tecnologia, clima, salute, pace e sicurezza), conclude che dopo anni di costante crescita il livello di cooperazione tra i Paesi è in leggera flessione, del 2% tra il 2020 e il 2022, ma meno di quanto la cronaca e il dibattito politico sembrino suggerire. Un punto di vista certo interessato, visto che un’istituzione come il Wef ha proprio l’obiettivo di promuovere il dialogo sui grandi temi globali: il titolo dell’imminente summit di Davos sarà proprio “rebuilding trust”, ricostruire la fiducia. Ma che merita attenzione per lo sforzo di sostanziare nei fatti un dibattito decisivo, che rischia di essere trascinato dall’emotività.
Il crollo della sicurezza, la tenuta dei commerci, l’intesa sul clima
Tra i cinque pilastri considerati nel barometro, ce n’è uno nel quale la cooperazione è precipitata, quello definito “pace e sicurezza”. Evidenza persino banale, considerate la guerra in Ucraina e quella tra Israele e Hamas, ma che l’analisi sostanzia anche con altri indicatori, come il moltiplicarsi dei cyberattacchi, quello dei rifugiati (quasi raddoppiati in dieci anni, fino a 82 milioni), la crescita delle vittime dei conflitti, anche se il numero di guerre in assoluto non aumenta. Tutto questo spiega in gran parte la flessione dell’indice di cooperazione complessivo, del 2% dal 2020 al 2020, dopo un decennio di aumento deciso e costante.
Gli altri quattro pilastri però restituiscono un quadro meno negativo. E’ il caso di commerci e investimenti internazionali, tornati a crescere – soprattutto nei servizi più che nelle merci – dopo lo choc pandemico. Oppure del clima, come ha dimostrato il relativo successo della recente Cop di Dubai dove l’intesa tra Stati Uniti e Cina ha aperto la strada al primo impegno esplicito al superamento dei combustibili fossili. Perfino il pilastro della tecnologia, nonostante la sfida tra le superpotenze si giochi soprattutto lì anche a colpi di reciproci boicottaggi, restituisce un quadro più sfumato, stagnazione più che declino, in cui per esempio i brevetti internazionali e gli scambi accademici scendono ma il flusso di dati e il commercio di servizi IT continua a crescere.
Nuova cooperazione per un nuovo ordine
La cooperazione è più resiliente di quanto la percezione e il dibattito sulla frammentazione globale suggeriscano, è il messaggio che mandano quindi il Wef e McKinsey. Un messaggio che non nega la complessità e i rischi della transizione da un vecchio a un nuovo ordine, un “punto di non ritorno”. Ma prova ad ancorare il dibattito su quello che va mantenuto e quello che va cambiato ad alcuni fattori oggettivi. Il primo è che l’aumento della cooperazione, economica e non solo, nell’ultimo decennio ha portato una serie di benefici globali, dalla riduzione della povertà all’aumento dell’aspettativa di vita, passando per la crescita economica nei Paesi emergenti. Il secondo è che per evitare che la cooperazione faccia marcia indietro, un rischio concreto a dispetto nel fatto che ne abbiamo sempre più bisogno, questa dovrà cambiare forma. Come? Borge Brende, presidente del World Economic Forum, ipotizza che dai classici format multilaterali si possa passare ad accordi tra coalizioni, in cui un numero limitati di Paesi trova intese su temi specifici in cui i rispettivi interessi sono convergenti, per esempio i trattati commerciali. E anche Bob Sternfels, global managing partner di McKinsey, parla di una passaggio dalla cooperazione alla diversificazione, per esempio sulle catene di fornitura globali.
Auspici e realtà
Qui però il piano dell’analisi sconfina con quello degli auspici, tutti da verificare nell’evoluzione dei fatti, nelle scelte dei leader politici e in quelle dell’elettorato, nell’anno in cui Europa, Stati Uniti e tante altre potenze vanno al voto con lo spettro di sovranismi e populismi. L’auspicio che, tra Stati Uniti e Cina, tra democrazie e liberali e autocrazie, tra Nord e Sud del mondo, i campi di competizione possano essere isolati e quindi convivere con quelli di cooperazione, senza virare in conflitto. E che la riprogettazione delle catene industriali globali possa portare maggiore resilienza e diversificazione piuttosto che nuovi costi e fragilità, perché tra il primo caso e il secondo – calcola McKinsey – ballano quasi 20 punti di Pil globale. In generale, l’auspicio che nel “nuovo” mondo sia ancora possibile limitare i conflitti e governare le grandi transizioni in una logica di interesse sovranazionale. Che finora la cooperazione non sia precipitata è un punto da tener presente, ma non certo la garanzia che non precipiti in futuro.
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