Basilicata

Gli industriali del Sud contro l’autonomia differenziata


A pochi giorni dal verdetto della Consulta gli industriali del Sud scendono in campo contro l’Autonomia differenziata


Una riforma sbagliata, che affonda le radici nei tentativi del centrodestra e del centrosinistra, di inseguire il miraggio federalista della Lega Nord e che ora rischia di mandare fuori strada l’intero Paese, minando la competitività del nostro sistema e mettendo a rischio anche la tenuta dei conti pubblici. Gli industriali del Mezzogiorno scendono in campo, in maniera compatta, contro la riforma dell’Autonomia differenziata, a pochi giorni dal verdetto della Consulta presentato da quattro regioni del Sud. Ma lo fanno senza scendere nell’agone della politica, senza parteggiare per questo o quel partito. Ma, prendono ufficialmente posizione esaminando nel dettaglio, con un documento “tecnico”, i contenuti della legge e facendo le pulci alle richieste già avanzate dalla Regione Veneto.

AUTONOMIA DIFFERENZIATA, GLI INDUSTRIALI DEL SUD FANNO SENTIRE LA LORO VOCE

È un parterre folto di imprenditori quello messo insieme da Unione degli Industriali di Napoli, Fondazione Mezzogiorno e il gruppo meridionale dei Cavalieri del lavoro per far sentire la voce delle aziende su un tema al centro del dibattito politico e far partire una vera e propria mobilitazione “di idee e di proposte” per fermare la Riforma. «Occorre rivedere profondamente la legge sull’autonomia differenziata – ha detto Costanzo Jannotti Pecci, presidente Unione Industriali Napoli – circoscrivendone gli effetti nella direzione di una deregolamentazione, quindi di una maggiore speditezza e di uno snellimento di alcune funzioni amministrative. Va eliminata ogni possibilità di spaccare ulteriormente il Paese, dopo decenni di politiche che hanno aggravato le diseguaglianze, di pari passo con l’accrescimento dei poteri delle Regioni».
Sulla stessa lunghezza d’onda Carlo Pontecorvo, presidente del Gruppo Mezzogiorno dei Cavalieri del Lavoro:  «Credo sia il caso di promuovere mobilitazione generale di tutto il Sud, cui dovrebbero partecipare associazioni di cittadini, di professionisti, rivendicando per il Meridione quel ruolo di leadership che invochiamo, leadership generatrice di idee e lavoro altamente qualificato».

L’EX NUMERO UNO DI CONFINDUSTRIA, ANTONIO D’AMATO

Anche per l’ex numero uno di Confindustria, Antonio D’Amato, presidente della Fondazione Mezzogiorno e Ceo di Seda Group, «l’autonomia differenziata non mette in seria difficoltà solo il Mezzogiorno, mette in crisi l’economia, la tenuta finanziaria e la competitività del sistema Paese. Dal punto di vista dell’equità sociale e dell’equilibrio territoriale, è innegabile che si tratta di un’iniziativa fuori posto. Ma soprattutto è una iniziativa inopportuna, aggiunge D’Amato, per gli effetti che essa rischia di produrre sull’economia reale. Il modello di autonomia differenziata, così come lo si sta proponendo, non aiuta.  Se dovessimo davvero fare una riforma sul regionalismo, dovremmo ritornare al Titolo V della Costituzione precedente alla riforma del 2001. E, in ogni, la vera priorità è la riforma della giustizia penale, civile e amministrativa».

L’ERRORE A MONTE CON LA RIFORMA DEL TITOLO V

L’errore è a monte, con la riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con una maggioranza risicatissima nel 2001 dal centrosinistra, che ha di fatto messo Comunità Montane, Comuni, Regioni e Stato tutti sullo stesso piano. «Questo ha moltiplicato i poteri di veto – ha scandito D’Amato – ha aumentato in maniera esponenziale la conflittualità anche sul piano della giustizia amministrativa, ha generato un effetto paralizzante sull’efficienza della burocrazia e della capacità dello Stato di affrontare i veri grandi problemi dei nostri territori e della nostra economia. Occorre, invece, una strategia industriale europea». 

Sì, perché l’altro paradosso della riforma è quello di frammentare il Paese, moltiplicare la burocrazia e creare ostacoli alla crescita proprio nel momento in cui il mondo va nella direzione opposta, con la Cina che ha dichiarato da tempo una guerra commerciale, gli Stati Uniti pronti a risfoderare l’arma dei dazi e un’Europa che fra le tentazioni ideologiche del green deal e l’assenza di una strategia industriale adeguata, rischia non solo il declino ma di perdere asset importanti dal punto di vista della manifattura.

La visione della lega, hanno ricordato gli imprenditori, è sempre stata di costruire un Europa delle Regioni, un’idea sbagliata nel 2001 e ridicola in un contesto in cui la stessa Europa, se anche fosse più forte e coesa rispetto a ora, sarebbe incapace di far sentire la sua voce. Il messaggio è chiaro: il no all’autonomia non viene solo da una parte del Paese ma serve all’intero Paese per poter uscire dalla crisi. Non è, insomma, un no “tout court” alla ineludibile stagione delle riforme. Ma è diverso, dal punto di vista degli imprenditori, l’ordine delle priorità: al primo posto c’è la giustizia penale, civile e amministrativa. E poi quella del premierato, partendo dal capitolo più importante, quello del Consiglio dei ministri.

IL DOCUMENTO TECNICO

Per quanto riguarda l’autonomia, il documento “tecnico” presentato ieri, nel corso del dibattito moderato da Gianni Trovati, e scritto da Marco Esposito, saggista e giornalista, dall’economista Massimo Bordignon, da Giuseppe Pisauro, ordinario di Scienza delle Finanze alla Sapienza di Roma e da Sandro Staiano, direttore Dipartimento Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli, presidente Associazione italiana dei Costituzionalisti, ha fatto il punto sullo stato di attuazione della riforma e, soprattutto, sulle materie “non Lep”, quelle cioè per le quali non occorre attendere la definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” che sono state già chieste da tre regioni del Nord, a cominciare dal Veneto.

Nel mirino sopratutto il capitolo della protezione civile, la cui frammentazione rischia di creare notevoli problemi sul fronte della gestione delle emergenze. «Basta ricordare quello che è avvenuto a Valencia», ha ricordato Pisauro. Oppure, la questione degli asili nido, primo terreno reale di sperimentazione dei Lep, segnato dai tagli decisi per il Sud nel Documento programmatico di bilancio. Ma, in generale, c’è un tema ancora più consistente che riguarda la stessa definizione dei Lep. «Chi ha deciso e perchè una materia rientra in questa categoria e un’altra no – ha sentenziato Stajano – Ho l’impressione che il presidente della Commissione, Sabino Cassese, abbia sposato in pieno la tesi di Mao: Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente».


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