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Gli avevano dato vent’anni. Massimiliano Caramazza, affetto da Sma, ne ha compiuti 52 e ora si è sposato. «Ma lo Stato mi ha abbandonato»

La scienza medica gli aveva pronosticato una vita breve, suppergiù una ventina di anni. Ma Massimiliano Caramazza, cuneese, ha beffato il destino e, a quasi 52 anni (li compie il 31 ottobre), non solo è ancora vivo, ma ha appena raggiunto un altro traguardo: si è sposato con Marta.

Vissero per sempre felici e contenti? Se bastassero amore e determinazione, sicuramente sì, ma Massimiliano, che ha la Sma (sclerosi amiotrofica spinale), una malattia neurologica che lentamente spegne tutti i suoi muscoli, necessita di assistenza continua e intensiva, e il contributo dello Stato per affrontare le spese stellari che lui deve sostenere ogni mese è del tutto insufficiente.

«Negli anni 70, i disabili erano appena “usciti allo scoperto”: fino a pochi anni prima ci si vergognava di averne uno in famiglia e letteralmente si tenevano chiusi in casa o li si faceva ricoverare in istituti», ci spiega. «Non c’erano studi genetici, le malattie come la mia si conoscevano molto poco ed i miei genitori, quando videro che non riuscivo ad alzarmi in piedi, hanno iniziato a portarmi in giro per medici ed ospedali».

Massimiliano Caramazza, come arrivò la diagnosi?
«Mi hanno fatto mille diagnosi, le più diverse tra loro, fino a che, il neurologo Ferraris, di Scandiano, un luminare che i miei genitori avevano “scovato”, come purtroppo si fa quando soffri di malattie non conosciute o poco frequenti, grazie al passaparola, fece la diagnosi corretta: Sma, la cosiddetta malattia del secondo motoneurone, dovuta alla mancanza di un enzima nel liquor cerebrale».

Avevano stimato un paio di decenni di vita.
«La media, con la mia patologia, erano intorno ai 20 anni. Negli ultimi anni le cose sono cambiate, decisamente in meglio, grazie alla medicina ed alla tecnologia ma, fino a non molto tempo fa, queste erano le prospettive di vita a cui venivi messo di fronte».

Come vive oggi?
«Non ho mai camminato, mi muovo su una sedia elettronica che hanno adattato su di me, ho deficit motori e dolori che spesso mi attanagliano. A 16 anni, una gravissima crisi respiratoria mi ha quasi ucciso e, da allora, vivo con una tracheostomia ed uso, prevalentemente di notte, un respiratore che mi aiuta».

Come ha fatto a disattendere quelle aspettative?
«Probabilmente è il fattore C, non lo so. A parte gli scherzi, credo serva determinazione a vivere, e non limitarsi a sopravvivere. Io sono fermamente e serenamente ateo, ma ho sempre considerato la vita una occasione irripetibile ed ovviamente unica, che i nostri genitori ci hanno donato e, come tale, va rispettata. Io tendo a cercare soluzioni più che a guardare ai problemi, perché sennò si finisce per “impantanarsi” nel fango e nei detriti degli ostacoli che ci ritroviamo tutto intorno».

La malattia è un dono?
«La malattia è orrenda, e quelli che dicono sia un “dono”, o che ci chiamano “persone speciali”, sono da aiutare, molto più di noi disabili. Distrugge te e, lentamente, anche le persone che ti amano, che ti sono magari anche solo amici. Nascondere la polvere sotto il tappeto non serve a nulla. Bisogna rendersi conto, razionalmente, dei propri problemi e come affrontarli. Non sempre ho trovato soluzioni, ma ho sempre e comunque tirato dritto perché non torno indietro di certo: il tempo non lo fa, e nemmeno io. Ho deciso di convivere con la mia patologia, gravemente invalidante, come fosse una sgradita compagna di viaggio di cui non ti puoi liberare. Non le ho mai dato più importanza del minimo sindacale e lei, ogni tanto, chiede attenzioni, e mi causa non pochi problemi, nonché ricoveri in ospedale ma, se lei vuole continuare ad esserci, le tocca non ammazzarmi, sennò, svanisce anche lei, insieme al sottoscritto».


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