Giustizia, una riforma che indica il “dito” celando la “luna”
La prospettazione di una separazione delle carriere pare inadeguata, se non fuorviante, quanto ai fini della riforma, perché la separazione funzionale di giudici e pubblici ministeri è di fatto operante (nel 2023 il cambio di funzioni ha riguardato lo 0,38% dei magistrati e l’andamento è stabile)
Alla ripresa della normale attività parlamentare un tema centrale in discussione sarà quello relativo alla riforma contenuta nel ddl costituzionale Meloni-Nordio n.1917/2024, comunemente intesa come quella della separazione delle carriere dei magistrati, che in realtà “traccia” una radicale revisione del sistema giudiziario nei suoi cardini strutturali e nei valori costituzionali che ne sono le radici.
Il progetto di revisione è già stato approvato da Camera e Senato in prima lettura e attende la seconda che, se varata, precederà il referendum popolare confermativo – quasi certamente – nel 2026.L’attenzione generale, nel nostro Paese e nell’intero vecchio Continente, è in questo momento rivolta al contesto geopolitico globale mai negli ultimi 80 anni sottoposto a una fibrillazione così destabilizzante che segnala i prodromi di un nuovo ordine mondiale. Si potrebbe perciò dire che, in un tale contesto, il rilievo della riforma del sistema giudiziario sia secondario e una riflessione sulla stessa di scarso interesse. E’ però sempre utile analizzare tematiche all’esame del Parlamento che mettono al centro i diritti dei cittadini perché la riflessione ne agevola la conoscenza collettiva, necessaria più che utile su tematiche su cui la comunità nazionale esercita nella sede referendaria una funzione di “ausiliarità legislativa”.Pare utile, ai fini della ricognizione degli elementi portanti della riforma, indicare in premessa l’orientamento ribadito nell’intervento di fine agosto al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini dalla premier Meloni in relazione alle decisioni dei giudici sul tema dei diritti degli immigrati.
La premier ha attaccato i giudici appellandosi al valore del rispetto della legge, che è proprio ciò a cui, secondo i principi della Costituzione e i canoni del diritto nazionale e sovranazionale, sanciti dagli organismi di giurisdizione sovranazionale, si sono attenuti i magistrati con le loro decisioni nella citata materia.Il punto nodale, legato al richiamo al principio del rispetto della legge, che nello Stato di diritto è valido per tutti, cariche governative comprese, è connesso ad un altro orientamento, espresso dalla Presidente del Consiglio, secondo cui le decisioni dei giudici non possono essere in contrasto col contenuto, e i relativi fini, delle leggi varate su iniziativa governativa ma debbono assecondarli assumendo, in caso contrario, queste decisioni, connotati politici estranei al ruolo dei magistrati.Tanto premesso, e segnalato il rilievo regressivo dei cennati orientamenti su un cardine del nostro assetto costituzionale, la separazione dei poteri dello Stato, sul citato ddl di revisione costituzionale si possono esporre queste notazioni di fondo.
La prima attiene ad un aspetto della sua “narrazione”, che ha un ruolo primario nella percezione collettiva del contenuto della riforma. La medesima è infatti generalmente indicata come riforma della separazione delle carriere dei magistrati.Tale prospettazione pare inadeguata, se non fuorviante, quanto ai fini della riforma, perché la separazione funzionale di giudici e pubblici ministeri è di fatto operante (nel 2023 il cambio di funzioni ha riguardato lo 0,38% dei magistrati e l’andamento è stabile) e quanto ai presupposti, perché il – presunto – appiattimento dei giudici sulle richieste dei pubblici ministeri, ed il conseguente vulnus della terzietà dei primi, sono smentiti dal generale, reale andamento della definizione dei processi.Dunque, prospettare il progetto di revisione costituzionale come la separazione delle carriere equivale ad indicare il “dito” celando la “luna” e cioè il centro della riforma che è costituito, oltre che dell’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, soprattutto della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che perderebbe il ruolo di garante dell’autonomia dei magistrati e di rappresentante del pluralistico dinamismo culturale del corpo giudiziario che è consustanziale alla sua funzione.Tra i profili della riforma che lasciano perplessi va anzitutto segnalata la creazione di due distinti Csm, uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri, entrambi con tre membri di diritto: il Capo dello Stato, che li presiede, e i due vertici della Cassazione.
Già questa duplicazione, e le peculiari implicazioni di tipo personale, richiama ai non lievi problemi di funzionalità di un sistema “binario” composto di organi sovrapponibili. La – eventuale – normativa di attuazione dovrebbe perciò stabilire se entrambi i Csm disporrebbero, ai fini dello svolgimento dell’attività paranormativa e dell’adozione dei pareri in materia di ordinamento giudiziario, di un unico Ufficio studi o di due, se dovrebbero redigere un’unica relazione annuale al Parlamento o due e cosi via, col conseguente notevole aggravio organizzativo e la più che prevedibile incertezza sulla definizione del sistema ordinamentale di riferimento. Non senza contare, come è già stato osservato, i rischi dell’istituzione di un organo destinato ad aumentare ulteriormente la forza della “funzione accusatoria”, con la più classica eterogenesi dei fini di una riforma destinata, nei propositi dichiarati, a garantire la parità processuale delle parti.
La sezione della riforma che con maggiore chiarezza ne rivela i reali intenti è quella che istituisce, per l’elezione della componente togata dei due Csm, il sistema del sorteggio. Un sistema che, a differenza di quanto è previsto per la componente laica eletta dal Parlamento, per la quale il sorteggio sarebbe di “secondo livello”, avverrebbe cioè all’interno di un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati dopo quindici anni di esercizio, per la componente togata sarebbe di sorteggio “puro”: i componenti togati dei due Csm sarebbero estratti a sorte tra i magistrati giudicanti e requirenti.La sola asimmetria nel metodo selettivo tra componente di estrazione parlamentare e quella togata (per la cui selezione non è previsto alcun requisito d’idoneità spettando alla legge di attuazione, secondo il ddl di revisione costituzionale, la fissazione del “numero e delle procedure”) evidenzia le reali finalità della riforma.La previsione di un sistema elettorale che affida al sorteggio “puro” la scelta dei componenti del più alto organo di autogoverno dei magistrati, non a caso presieduto dal Capo dello Stato, assume un rilievo quasi irridente e di certo delegittimante solo se si tiene conto della complessità e della specificità delle competenze dell’autogoverno giudiziario.Parte della riforma, che risponde alla stessa logica di depotenziamento del ruolo costituzionale del Csm, e che il limitato spazio di questa esposizione consente solo di indicare, prevede la sottrazione all’organo di autogoverno della funzione disciplinare ed il conferimento della medesima ad un’Alta Corte disciplinare.Questa logica risponde a fini non consoni alle serie esigenze del funzionamento della giurisdizione da tempo in sofferenza e in attesa di risorse strutturali e di metodologie che diano il segno della necessaria inversione di tendenza.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA