Giulio Beranek: «Sono cresciuto in fretta come figlio di giostrai. Ai miei figli insegno il bello di vivere all’aperto e non la paura che qualcuno possa bruciare la tua roulotte»
Ma in una situazione così, quando guardava o parlava con i suoi coetanei, desiderava la loro normalità?
«Non si presentava neanche questa eventualità. Io ero cresciuto troppo più fretta, avevo bruciato le tappe: non avevamo niente in comune che ci potesse legare, quindi per me era impossibile mettermi anche solo in una posizione di confronto».
Guardandosi indietro, le è pesato essere diventato così presto adulto?
«Sono cresciuto tutta pratica e niente teoria: zero gentilezza, zero capacità di relazionarmi con l’altro, di poter stare a mio agio in un contesto sociale diverso dal luna park che era sempre stato tutto il mio mondo. Però, nella vita, poi, capita sempre di fermarsi e di riuscire a recuperare il tempo perso. Quando sono arrivato a Roma, mi sentivo un disadattato, poi ce l’ho fatta a riprendere tutta quella parte di vita che mi mancava. Direi che, se sono l’uomo che sono diventato, lo devo a quell’infanzia».
È padre di due figli. Cosa vuole che apprendano del suo passato?
«La parte ludica, magica e affascinante che ha quel tipo di vita. Voglio che vivano le giostre, le carovane, lo stile di vita comunitario, quello che quando esci dalla porta di casa, trovi zii, cugini e puoi giocare libero, in mezzo alla natura. Quindi, questo significa evitargli di vivere la paura che tuo padre venga coinvolto in una rissa o che qualcuno possa bruciarti una giostra o la roulotte in cui vivi».
Ha dedicato un libro, Il figlio delle rane, e un documentario, I re del luna park, alle sue origini. Perché quest’esigenza?
«Ho dovuto e voluto raccontare tutto per espiazione, per catarsi, per pulire. Pulire per essere sincero, onesto e poter ripartire. A un certo punto della mia vita, ho realizzato che dovevo raccontare la mia storia per capire e poter collocare tutto quello che mi era accaduto in maniera precisa nella mia mente. Pensi solo che l’intervista che vede nel documentario, quella che lega tutte le vicende, è stata girata con un unico take: ho iniziato a parlare e non mi sono più fermato fino a quando non è stato dato lo stop».
Simone Paccini
Cosa le ha portato ripercorrere in questo modo il suo passato?
«Riuscire a perdonare le persone che mi avevano fatto male. Ho convissuto per molto tempo con la rabbia e il rancore. Poi ho capito che era solo nocivo per me, quindi ho perdonato in alcuni casi, in altri ho giustificato e sono andato finalmente avanti. Io, adesso, sono sereno con quella parte della mia vita, altrimenti sarei diventato come il mio personaggio, Gerri, un eterno adolescente che non riesce a crescere».
E la recitazione? Quando è arrivata?
«Io dico sempre che mi è cascata addosso, non l’ho scelta, è giunta per caso. Mi sono ritrovato sul set e mi veniva tutto così naturale che ho deciso di continuare. Non ho mai avuto particolari difficoltà perché ho cercato di seguire sempre un unico principio: credere in quello che stai interpretando e riuscire a far fare lo stesso con chi ti guarda».
Cosa vorresti per te nel futuro?
«Lavorare. Vorrei sempre poter riuscire a vivere della mia arte. Nulla di più».
Source link