Gino Paoli: «La morte di mio figlio Giovanni non l’ho ancora superata, è un’ingiustizia atroce. Il tentato suicidio? «Avevo tutto, ma non sentivo più nulla»
Novantuno anni e «gli esami del sangue perfetti». Gino Paoli ha uno specialissimo elisir di lunga vita: «Lo stile di vita più malsano possibile, fumando per decenni due pacchetti di sigarette e bevendo una bottiglia di whisky al giorno. L’ho detto a un convegno di gerontologi, studiosi della vecchiaia, e ho avuto dieci minuti di applausi. Il mio medico mi vuole rigare la macchina», come ha raccontato al Corriere.
Gino Paoli è un uomo che ha attraversato momenti intensi, segnato da esperienze personali che spesso hanno influenzato la sua musica. E da ferite da cui è impossibile guarire, come la morte di suo figlio Giovanni. «Un dolore che non ho ancora superato. Mi pesa molto parlarne. Un’ingiustizia atroce: deve morire prima il padre del figlio, dovevo morire prima io di Giovanni». Il confronto con Dio, da allora, è crudo, sincero: «Gli chiedo perché si è portato via quasi tutti i miei amici, tante persone care. E lui mi risponde: “Se ci pensi bene, lo capisci”. Dio preferisce circondarsi di persone buone e intelligenti, anziché di figli di puttana. Mi chiedo però cosa ci faccio ancora io qui».
Della sua morte non ha paura: «Ho paura della morte delle persone che amo». E suo tentativo di suicidio, nel 1963, resta un capitolo aperto: «Avevo tutto, il successo, le donne, e non sentivo più nulla. Volevo vedere cosa c’era dall’altra parte». Oggi immagina l’aldilà come un luogo dove «a volte penso di ritrovarmi da solo, al buio, in mezzo al nulla, come uno stupido. Altre volte penso che l’aldilà sia un posto meraviglioso, pieno di luce e di musica, dove ci ritroveremo tutti».
Tra le sue storie più intime, c’è quella di un amore particolare, quella con la prostituta che ispirò Il cielo in una stanza. «Insomma, mi ero innamorato. Capita», racconta. Non ricorda il suo nome, ma sa che «era molto carina. Mi piaceva proprio tanto, e io piacevo a lei».
Quel periodo giovane era fatto di voglia di vivere e ribellione: «Frequentavamo i bordelli falsificando la data di nascita, si marinava la scuola e si andava al Castagna, a chiacchierare con le p*****e, finché non ci cacciavano. Allora tornavamo con un cabaret di paste per farci perdonare».
Per poter rivedere la sua preferita dovette perfino «rubare i libri a mio padre. Una vecchia enciclopedia, che rivendetti. Per fortuna non se ne accorse». E anche quando i soldi finirono, lei lo invitò a continuare: «Mi rispose: “Ma no! Vieni lo stesso!”. Così andavo a prenderla al mattino, quando non lavorava. E giravamo come due fidanzati».
Ma le rotazioni nel suo mondo erano rapide: «Lei doveva lasciare Genova. Le p*****e non erano fisse in un posto; dopo un mese, a volte solo quindici giorni, partivano». Quando lei gli chiese di seguirla, Paoli esitò, poi prevalse «il senso del dovere: “Mi dispiace tantissimo, ma debbo dirti di no”». Non l’ha più rivista, e lei non ha mai saputo di essere stata la musa di una delle più famose canzoni italiane. All’inizio, però, il brano faticò a trovare spazio: «L’avevo affidata a Giulio Rapetti, il figlio del capo delle Edizioni Ricordi». Mogol girò tutti gli studi, ma nessuno la volle. Poi Mina la incise e successe qualcosa di straordinario: «Tony De Vita, l’arrangiatore, mi raccontò: “Gino, è successa una cosa pazzesca. Mina ha cantato la tua canzone, accompagnata dai violinisti della Scala, e quando ha finito è scoppiata in un pianto dirotto, con i musicisti che la acclamavano levando l’archetto”».
Gino Paoli ricorda anche la polemica con Elodie. «Giuro che non sapevo chi fosse. Poi mia moglie mi ha mostrato una sua foto. È una bella donna». E aggiunge: «Non ce l’avevo con nessuno in particolare, parlavo in generale».
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