Gina Birch – Trouble | Indie For Bunnies
Con Trouble, Gina Birch compie un passo ulteriore nella sua traiettoria solista, confermando la capacità di reinventarsi senza mai tradire la propria essenza. Il disco, pubblicato per Third Man Records, arriva a due anni dall’esordio I Play My Bass Loud e ne riprende la forza istintiva, ma con un tono più meditato, più consapevole. La Birch, storica fondatrice delle Raincoats, non ha mai perso il gusto per la disobbedienza: qui la ribellione non è solo sonora, ma esistenziale. Ogni brano è un piccolo atto di resistenza quotidiana, un modo per tenere vivo il senso del dissenso anche dentro la routine, il corpo che cambia, le relazioni che si incrinano, il tempo che sfugge. La sua voce non cerca la perfezione, ma la verità: ruvida, a volte ironica, altre volte spettrale, si muove con naturalezza tra sarcasmo e malinconia.

Musicalmente, Trouble è un disco stratificato, che mescola i linguaggi del post-punk, dell’elettronica minimale e di un certo lo-fi narrativo, costruendo ambienti sonori essenziali ma evocativi. Le linee di basso, centrali nel suo approccio fin dagli esordi, tornano protagoniste, ora lente e liquide, ora battenti e nervose, sempre con un senso fisico e affettivo. La produzione, affidata a Youth (già collaboratore di The Verve e Killing Joke), riesce nell’intento di mantenere l’urgenza punk pur dando respiro ai dettagli: cori scomposti, sintetizzatori sparsi, pizzichi di archi, inserti vocali che sembrano arrivare da un’altra stanza. Il suono è allo stesso tempo sporco e scolpito, come se fosse stato inciso con cura ma senza togliere nulla alla spontaneità del gesto.
L’album si muove tra registri diversi e con grande naturalezza. Ci sono tracce dall’impronta dichiaratamente politica, come Causing Trouble Again, che riflette sul femminismo come memoria attiva, non come slogan impolverato; ci sono episodi più intimi come Happiness, che nonostante il titolo galleggia su una linea fragile, disillusa, attraversata da un desiderio sottile e mai del tutto risolto. Doom Monger è forse il brano più emblematico del disco: cupo, visionario, ma anche ironico, in bilico tra un’esigenza di pace e la consapevolezza che il disordine è spesso una necessità vitale. Birch non predica, non spiega, ma suggerisce: ogni pezzo apre domande più che offrire risposte. Il suo songwriting è asciutto, quasi scheletrico, ma lascia spazio all’ascoltatore per riempire i vuoti con la propria esperienza.
Detto questo, c’è anche un senso cinematografico in Trouble, come se ogni brano fosse una scena, un’inquadratura, un movimento lento di macchina su volti e dettagli che sfuggono. La forza del disco sta nella sua coerenza emotiva: è un lavoro che ha un’identità precisa, nonostante l’apparente varietà. Birch riesce a essere politica senza essere dogmatica, personale senza cadere nell’autocompiacimento. In un panorama musicale spesso dominato da estetiche perfettamente levigate, la sua voce resta un’eccezione: imperfetta, vibrante, urgente. Trouble è un album che non ha paura di sporcarsi le mani, che affronta la complessità del presente con la lucidità di chi ha attraversato diverse stagioni ma continua a interrogarsi senza posa.
In soldoni, non è solo un ritorno: è una dichiarazione di vitalità. Gina Birch non cerca il revival, ma la continuità di un pensiero e di un corpo in movimento. Trouble è un disco necessario, che parla del tempo che passa ma lo fa con energia, ironia e dignità. Un’opera che, come lei stessa, continua a fare rumore — non per nostalgia – ma per scelta.
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