Gianluca Grignani, 30 anni dopo Destinazione paradiso: «A 23 anni mi davano del maledetto, se ci avessi creduto sarei stato rovinato»
A vederlo così, sdraiato su una poltrona con i capelli lisci che gli coprono un occhio e lo sguardo, in generale, malandato, sembra Kurt Cobain, il leader dei Nirvana morto appena pochi mesi prima del suo esordio ufficiale, aprile 1994 contro novembre 1994. L’espressione è degna di un Jeff Buckley, altra rockstar maledetta, che debutta sempre in quel fatidico 1994, con Grace (resterà il suo unico album da vivo). Solo che qui non siamo negli Stati Uniti ma in Italia e il disco in questione non è un disco rock, semmai (citiamo l’autore, certo a posteriori) «un prodotto ben plastificato», pensato per portarlo nelle camerette di decine di migliaia di giovanissimi, ragazze in primis, già che è pure un belloccio. Lui si chiama Gianluca Grignani, questa è la cover del suo primo album, Destinazione paradiso (1995) e su questa discrasia – tra rockstar maledetta e popstar preconfezionata – si giocheranno gran parte degli equivoci, e dei dolori, della sua carriera.
Eccolo: il Joker della musica italiana, come lo chiamano tutti, per la drammaticità intrinseca, per come sa passare, suo malgrado, dalla tragedia alla commedia, anzi per come tiene unite entrambe le cose. Campione di auto-sabotaggio, quindi intanto personaggio vero in un mercato già allora pieno di automi, ma anche artista difficile da inquadrare, con salite e discese prima umane e poi artistiche. Il suo Destinazione paradiso (1995) compie trent’anni ed esce in un’edizione speciale. Vale la pena celebrarlo per tre motivi: perché è il disco d’esordio di Grignani; perché ha La mia storia tra le dita (un classico della nostra cultura condivisa ben prima del brutto affaire con Laura Pausini), Falco a metà e proprio Destinazione Paradiso, hai detto niente; e perché per il resto è un lavoro trascurabile, con tutti i limiti di un esordio, scritto e composto dallo stesso Grignani da solo, ma sotto dettatura di qualcosa di grande, se non è la casa discografica è proprio l’inesperienza. Eppure è proprio lì, nelle ombre solo accennate, che sta il segreto.
E tante di tracce di questo segreto emergono proprio in questa ristampa, che riporta nodi al pettine. Più che una celebrazione, una riappropriazione. A cominciare da una nuova copertina perché – ha detto alla stampa – «all’epoca avevo un’altra etichetta, che voleva fare più soldi possibili su di me e la cover andava in quella direzione. Io ne soffrivo». Tiè. O anche la presenza, qui, di un vecchio poster, in cui «faccio il dito medio perché ero stanco di fare foto». Nel dubbio, nonostante la sua insofferenza, fu un successo da 700mila copie in Italia (disco di diamante) e un milione nel mondo, trainato dalla versione in spagnolo. Lo lanciò nell’Olimpo da esordiente, ad appena 22 anni, sbancando Sanremo Giovani 1994 con La mia storia tra le dita. Da lì, gli si aprirono le porte del Festival vero e proprio, nel 1995 con Destinazione paradiso, trasformandolo in fenomeno di massa.
Il look ispirato alle stelle del grunge (Cobain su tutti, appunto) copre in realtà un progetto pop per ragazzi, di piena melodia e in realtà buon cantautorato, ispirato a vicende biografiche. Ma se La mia storia tra le dita ha trama da film adolescenziale – la storia vera parla di lei che lo lascia perché non vuole per lui un futuro nel mondo della musica – Destinazione Paradiso è più complessa. Togliamoci subito l’elefante nella stanza: cos’è, una canzone sul suicidio? Nel caso, sarebbe una delle poche, l’ultimo tabù della nostra musica: alla fine Meraviglioso di Domenico Modugno parla di un uomo che pensa di buttarsi in un fiume, ok, ma viene salvato da un tipo che lo fa accorgere di-quanto-il-mondo-sia-meraviglioso. Qui no, si parte dicendo che tanto, anche se non ci siamo più, la Terra continua girare, la morte è una tentazione e allora sai che c’è, c’è che prendo un treno che va a Paradiso Città, salutando tutti.
Source link




