Giancarlo Marenco: “Il posto dove sto meglio emotivamente è proprio il mio studio”
La domanda per un attimo lo coglie di sorpresa. «Ma perché ha scelto di fare lo psicologo?». L’esitazione dura poco, però, poi si apre la porta dei ricordi: l’Università a Padova, il tirocinio a Trieste negli anni di Basaglia, la costruzione del rapporto con i suoi pazienti. Pagine del passato che magari da un po’ non venivano richiamate ma sono sempre lì, vive.
Così anche se l’impegno non scritto era di mangiare prima e chiacchierare poi, diventa impossibile interrompere il flusso delle storie e degli aneddoti che vanno a ripescare dall’album in bianco e nero degli anni ‘70. L’altro ieri tutto sommato, ma a volte sembra un passato lontanissimo.
Nato a Santo Stefano Belbo, «davanti alla Fondazione Cesare Pavese, ha presente?», classe 1955, Giancarlo Marenco è psicologo da oltre 40 anni e da quattro presidente dell’Ordine piemontese. Vorrebbe parlare della nuova sede dell’ente, in realtà. E in effetti ha ragione perché è bella, «accogliente, calda, aperta», dice, e la descrizione è calzante. In una saletta — la visita avviene dopo pranzo — c’è una scritta al centro del muro: “Ci vuole coraggio a non fingersi normali”.
Per rispondere alla domanda iniziale è però necessario guardare all’indietro. «Fare psicologia per me è stato come autocurarmi, come credo fosse all’epoca per molti di noi. L’ho deciso in terza superiore: la mia adolescenza non è stata semplice» racconta. «Allora c’erano solo due facoltà, a Padova e Roma, poi pian piano le hanno aperte in tutta Italia. Ho scelto Padova».
Padova, gli anni 70, le lotte, Toni Negri, il processo 7 aprile. Non c’entrano nulla con la conversazione sulla psicologia che probabilmente si immaginava di fare. Ma la tentazione è troppo forte, almeno per chi non c’era, di chiedere, di approfondire. Troppo facile, a quel punto, che il discorso scivoli sulla politica.
«No — precisa — ma Toni Negri io non l’ho mai neppure visto, era già quasi andato via quando ero lì». Però. «Però allora ero di Avanguardia Operaia. C’erano tante realtà, Lotta Continua, il Manifesto… appunto Avanguardia Operaia. Io, con il mio eskimo verde o giallo, vendevo il Quotidiano dei Lavoratori davanti alla facoltà che era in centro, in piazza Capitaniato, tra Palazzo delle Erbe e Palazzo della Ragione. Era molto bello» .
Fuori piove forte, il cielo è scuro come fosse al tramonto anche se è appena l’una di pomeriggio. Anche il locale ha poca luce e i rumori sono ovattati. E questo aiuta nella suggestione di essere in un film o in un documentario d’epoca.
Niente Toni Negri, dunque. Ma «durante il processo Moro, una mattina alle 6 vengono a perquisire la Casa dello studente. Con le mitragliatrici, entrano in tutte le stanze, rompono tutti i cassetti per aprirli… io ovviamente come tutti non ero in camera mia ma a casa della mia ragazza di allora». Ovviamente. «A un certo punto in cortile ci fanno aprire le valigie. Un mio amico che assisteva dal balcone lancia un urlo contro le forze dell’ordine. Non insulti, solo un urlo. Lo portano in carcere e si fa due giorni lì: dovevano portar via qualcuno, fare qualcosa».
Al tavolo arrivano i secondi, eccezionali come i primi. Viene da chiedere a questo punto cosa sia rimasto di quell’esperienza, di quegli anni. Se qualcosa sia rimasto anche nella professione. «Mah, io ero un po’ un simpatizzante, quindi non capivo tanto di politica e certamente oggi non mi identifico più in quelle cose». L’esperienza più intensa e più formativa è stata però un’altra, il tirocinio all’ospedale psichiatrico di Trieste.
«Gli studenti organizzavano turni di tre mesi in cui si faceva il tirocinio, scelto da noi. Io sono stato tre mesi a Trieste nell’ospedale psichiatrico: Basaglia l’ho visto una volta sola, chi gestiva in quel momento era Franco Rotelli». L’immagine che è rimasta impressa in mente è quella delle “due regine”. «Regina Zacchi e Regina Turina, me le ricordo perché poi ci si affeziona» dice. Regina Zacchi «era figlia di un avvocato ed era anche colta, ma ormai era lì da tanti anni. Ha scritto una poesia “Dattilografia spicciola di una povera alienata”, bellissima». Poi «c’era una ragazza che era un po’ la mascotte, a sei anni i genitori l’hanno portata in manicomio perché era iperattiva e l’hanno lobotomizzata e lei non camminava più. Correva solo. Sono stati i tre mesi più intensi della mia vita».
Siamo al caffè. Si torna avanti di più di 40 anni. Allora la psicologia poteva essere interpretata come la professione “dei matti”. Ora no, ora c’è una richiesta sempre crescente e arriva dai giovani, «la generazione Z sta chiedendo tanto supporto psicologico e in tutte le maniere». E quindi? «Quindi le prospettive sono quelle di una professione che non è più caratterizzata dall’essere solo e prevalentemente negli studi professionali ma che si apre a tante altre possibilità» come il progetto dello psicologo di base di cui proprio il Piemonte è stato l’anticipatore.
Resta una curiosità. Capire se alla fine quella forma di auto-cura ha funzionato. «La dico così: il posto dove io sto meglio emotivamente quando sono in studio» riconosce. «In pratica mi sento al mio posto. È chiaro che sotto c’è anche la gratificazione narcisistica di sapere che una persona parte da casa e viene apposta da te. Ma con il tempo questo aspetto passa, diventa altro». Qui il presidente dell’Ordine introduce un concetto complesso da riassumere in due righe, quello del setting. Diremmo del “sentirsi a proprio agio” ma spiega a noi profani che è un po’ più articolato. «Se tu hai interiorizzato il tuo setting, sai come stare e stai bene lì».
Una volta, aggiunge, «un paziente mi ha detto che la terapia per lui è stata come un colpo alla pancia fortissimo, un pugno nello stomaco. Credo sia stato il miglior complimento che abbia mai ricevuto».
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