Genocidio, memoria e giustizia: una riflessione sull’attualità alla luce della storia
PORDENONE – Un intellettuale polacco di origine ebraica, Raphael Lemkin, fu il primo a elaborare e definire in modo preciso il concetto di genocidio, coniando il termine stesso nel 1944. Lo fece in risposta agli orrori commessi contro gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, ma anche riflettendo sul massacro degli armeni nel 1915. La sua analisi ebbe un impatto determinante: l’ONU adottò nel 1948 la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, sancendo ufficialmente il genocidio come crimine contro l’umanità.
Non va dimenticato che fu proprio l’ONU – Organizzazione delle Nazioni Unite – a nascere nel 1945 su iniziativa delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, con l’obiettivo dichiarato di mantenere la pace e garantire la cooperazione internazionale. Tuttavia, la sua storia è costellata di scelte controverse.
Una di queste fu la risoluzione del 1947 che propose la spartizione della Palestina in tre parti: il 56% del territorio destinato alla popolazione ebraica, il 43% ai palestinesi che da secoli abitavano quelle terre, e Gerusalemme definita “città internazionale”. Una spartizione che, nel tempo, ha generato profonde ingiustizie. Israele, nel 1980, proclamò Gerusalemme come sua capitale, contravvenendo alle risoluzioni internazionali. Per i palestinesi, la perdita della loro terra, l’esproprio di risorse e territori e lo status di rifugiati per milioni di persone rappresentano un trauma storico non ancora sanato.
La situazione a Gaza, oggi, è la manifestazione più tragica di questo lungo conflitto. Fino al marzo 2025, si stima che oltre 60.000 palestinesi siano stati uccisi, di cui più del 75% donne, bambini e anziani. Ospedali, scuole, strade, reti fognarie, moschee e infrastrutture civili sono stati sistematicamente distrutti. Davanti a uno squilibrio militare totale – un esercito israeliano altamente tecnologico contro una popolazione assediata e senza protezione – si fatica a definire quanto accade semplicemente come “guerra”.
La domanda resta aperta: come deve essere chiamato un popolo che viene privato della propria terra, massacrato, costretto a vivere da rifugiato, mentre il mondo osserva? Quando la distruzione diventa sistematica e le vittime civili sono la maggioranza, non si può evitare di interrogarsi sul senso del termine genocidio, così come lo aveva pensato Lemkin.
Oggi, più che mai, serve una riflessione seria e imparziale da parte della comunità internazionale, perché giustizia, pace e memoria non rimangano solo parole vuote.
Taher Djafarizad, fondatore Associazione Nedaday