Gaza raccontata dai giovani che non si rassegnano a essere considerati numeri: «Ho perso 21 membri della mia famiglia sotto le bombe. Ma, anche sotto le macerie, noi continuiamo a scrivere»
«Se io devo morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia». La frase di Refaat Alareer, poeta palestinese della Striscia di Gaza, insegnante, ucciso da un attacco aereo israeliano il 6 dicembre 2023, suona come un mandato. È da lì che parte We Are Not Numbers, appena pubblicato da Penguin in Inghilterra (e già nella top 5 del Sunday Times) e da Nutrimenti in Italia, con il titolo Non Siamo Numeri: un’antologia di saggi, poesie e frammenti di vita scritti dai giovani di Gaza nel corso degli ultimi dieci anni. Un’opera corale che nasce dall’urgenza e dal dolore, ma anche dalla dignità, dal talento, dalla volontà di raccontarsi come esseri umani e non come vittime mute.
Il progetto, co-fondato nel 2015 da Pam Bailey e Ahmed Alnaouq, ha raccolto più di 1.300 testi scritti da 323 giovani autori palestinesi, molti dei quali oggi non ci sono più. Tra le voci incluse nel volume, anche quella di Mosab Abu Toha, vincitore del Premio Pulitzer 2025 per la sezione Commentary, per la sua capacità di dare forma, parola e respiro al dramma di Gaza.
Al centro di tutto, l’intuizione che narrare è un atto di resistenza. Lo dice chiaramente Ahmed Alnaouq, cresciuto a Gaza, ora a Londra, sopravvissuto alla perdita di 21 membri della sua famiglia. A lui abbiamo chiesto di raccontarci cosa significa oggi scrivere da Gaza o per Gaza, cosa resta della quotidianità, cosa cambia nella speranza, cosa si trasmette – anche senza elettricità, anche senza connessione – con uno schermo rotto e la volontà, ostinata, di non essere cancellati.
Perché, come scrive nella prefazione Cecilia Strada, «per cambiare il futuro dobbiamo partire da qui: dal fatto che non sono numeri. Sono persone».
Non siamo numeri è una dichiarazione umana e politica. Quando ha capito che raccontare storie poteva essere un atto di resistenza?
«Quando ho visto quanto spesso le voci palestinesi venissero cancellate o ridotte a statistiche. Raccontare le nostre storie – crude, umane e senza filtri – è diventato un modo per rivendicare la nostra capacità di agire e sfidare le narrazioni che ci disumanizzano. È il nostro modo di dire che non siamo numeri: siamo esseri umani, padri, madri, fratelli e sorelle che meritano di vivere con dignità e libertà. E questa è una dichiarazione politica, perché l’occupazione e i suoi strumenti di propaganda sono riusciti a rendere le vite palestinesi meno preziose di quelle dei nostri occupanti. Ma noi palestinesi ora gridiamo da sotto le macerie, da sotto il genocidio, che questo non è più accettabile».
Quanto è importante mostrare momenti di normalità – i sogni, le scelte e le frustrazioni quotidiane – accanto al dolore?
«Mostrare la normalità è fondamentale. Senza di essa, i lettori ci vedono solo nei momenti di crisi. Scrivendo di andare al mare, prepararsi per gli esami o innamorarsi, riveliamo la ricchezza delle nostre vite e della nostra cultura. Ricordiamo al mondo che sogniamo, speriamo e soffriamo come chiunque altro. Questa dualità – speranza e orrore – è la verità della vita a Gaza. In questo modo, contrastiamo anche la narrazione mediatica dominante che si concentra su Gaza solo nei periodi di spargimento di sangue. Vogliamo che il mondo sappia che Gaza è amore, talento e vita, non solo guerra e distruzione. E questo è il cuore della nostra storia».
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