Cultura

Fightmilk – No Souvenirs | Indie For Bunnies

Non sono mai stato del tutto convinto da chi usa i testi come argomentazione principale per perorare la causa di una canzone o un disco, e trovo semplicemente inutili le recensioni che non fanno altro che elencare passaggi testuali di due o tre righe alla volta, senza dare almeno lo stesso spazio alla parte musicale. Il problema, però, è che ogni volta che ho ascoltato questo terzo disco dei Fightmilk sono stato colpito innanzitutto da alcune frasi cantate da Lily Rae, ed è inutile che io faccia finta che il merito è anche del contesto musicale nel quale esse sono poste, perché certe cose sono dette talmente bene che mi avrebbero impressionato anche se fossero contenute, che ne so, in una canzone trap, o anche solo se le avessi semplicemente lette.

Credit: Bandcamp

Il passaggio principe è certamente il devastante “they tell me I should speak my truth, but I don’t know how much I should tell you” seguito dal coro “I don’t cry as much as I used to, I don’t cry as much as I need to” contenuto nell’emozionante “Banger #7″, pezzone che rende con impressionante realismo la situazione in cui non si riesce a trovare il giusto bilanciamento tra il non far male a un’altra persona e farlo a noi stessi. Letteralmente da lacrime agli occhi, ripeto, in qualunque forma possano presentarsi queste parole così efficaci e ben scelte.

Ma altri momenti non sono poi così distanti da questo in termini di impatto emotivo: “it shouldn’t be this tough if it’s something that you love” (“Back From Tour”); “we’re ruining the ending for ourselves” (la title track); “the red flags look like roses when there’s something in your eye” (“My Best Me”); “I don’t want to write another song about death, but I close my eyes and it’s somebody else” (Eating For Two”) sono tutte frasi che ci sbattono in faccia nel modo più brutale possibile una realtà che, purtroppo, è il più delle volte ineludibile: siamo tutti soggetti a una pressione social(e) che, troppo spesso, ci attanaglia e ci fa preferire una presunta correttezza nel modo di comportarci al nostra benessere autentico, perché, semplicemente, se diciamo che la priorità che ha guidato una nostra scelta è il voler evitare di stare male, siamo degli ingrati, degli stronzi, degli insensibili. Di conseguenza, per la paura di dare questa impressione, abbiamo paura ad ammettere i nostri stati d’animo e a liberare le nostre emozioni persino con noi stessi.

Ed eccomi qui: ho appena scritto 1.980 caratteri, spazi esclusi, senza parlare nemmeno per un attimo della musica, in barba a tutto ciò che ho sempre pensato in quasi 20 anni che mi diverto a fare questa cosa e in almeno una trentina da lettore. Però, ne converrete, i motivi per cui ho fatto quest’eccezione sono parecchio validi, voglio dire, come fai a non dare il primo piano a parole del genere? Devi farlo, perché chi le ha scritte e le canta se lo merita e perché il tema è della massima importanza e raramente toccato, soprattutto in ambito indipendente dove, in teoria, non ci si dovrebbe sentire in obbligo di aderire al politically correct, e invece a dare la scossa ci deve pensare, o almeno provare, una band che è certamente amatissima nel proprio circuito, ma che certamente è lontana dagli onori della cronaca a livello nazionale, per non parlare di quello europeo dove probabilmente sono conosciuti davvero da un numero molto ridotto di persone.

E comunque, meglio di così la scossa non potrebbe essere data, e qui, finalmente, entrano in ballo anche aspetti musicali. Infatti, se è vero che le parole di queste canzoni sono così efficaci che avrebbero comunque impatto su chi si imbatte in esse, la scelta di come accompagnarla vocalmente e strumentalmente appare la più azzeccata possibile. Non a caso ho scritto prima l’avverbio vocalmente, perché uno dei temi più importanti di questo disco è l’attenzione data da Lily proprio al modo di cantare, che si allontana da quello sempre pulito e rotondo del passato e vira su tonalità più velate, su un timbro più robusto e su momenti di ruvidità. La cantante parla di influenze legate a artiste come Alicia Bognanno dei Bully e Missy Dabice dei Mannequin Pussy, e se conoscete i dischi precedenti dei Fightmilk farete certamente fatica a immaginare un cambiamento del genere, ma basta ascoltare e si capisce subito che le cose stanno proprio così e questo modo di cantare era quello che ci voleva per i testi di queste canzoni.

Passiamo, quindi, a ciò che la stessa Lily e gli altri fanno con gli strumenti. Anche qui, la scelta è quella di abbandonare, almeno parzialmente, la facilità di ascolto e la pulizia che caratterizzavano i precedenti dischi dei Fightmilk, in favore di un sound più stratificato e che non ha paura di mettere in primo piano la ruvidezza quando è necessario. Questa impostazione è utile per far sì che il messaggio lanciato con i testi non si riduca a un esercizio di auto commiserazione, ma abbia la spinta necessaria a far sì che esso risulti propositivo, foriero di un necessario cambiamento. Lo stesso vale per l’aspetto compositivo, nel quale non troviamo più la presenza costante della rotondità melodica, ma può esserci un minor grado di definizione in base alle necessità, per cui troviamo una convivenza gomito a gomito di melodie immediate e coinvolgenti con altre decisamente più sfuggenti, che però stanno bene in quel momento, sempre con l’idea fissa di esprimere al meglio ciò che si vuole dire.

In conclusione, questo è un disco speciale, destinato a lasciare il segno su chi lo ascolta con attenzione. I Fightmilk si sono trovati quasi di necessità ad alzare l’asticella, visto che la perfezione pop l’avevano già raggiunta, e la missione è splendidamente riuscita. Continueremo a essere in pochi a saperlo, purtroppo, ma una band così è una vera e propria benedizione.


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