Liguria

Federico Buffa ad Arenzano nel segno di Michael Jordan: “Un uomo in missione per conto di Dio. Io genovese per metà” 

Arenzano. Padronanza totale degli argomenti e una potenza narrativa fuori dal comune. Questo è Federico Buffa, poliedrico giornalista italiano e grande conoscitore di sport che sabato 26 luglio alle 21 sarà ad Arenzano, presso la suggestiva cornice di Villa Figoli, e porterà sul palco la sua narrazione sportiva con lo spettacolo “Number 23”, vita e splendori di Michael Jordan. Il racconto di un gigante dello sport accompagnato dalle note del Maestro Alessandro Nidi al pianoforte.

Jordan rappresenta un punto di riferimento che va al di là del discorso cestistico e che viene osservato e ammirato dagli amanti dello sport mondiale. E per Buffa, intervistato da Genova24, è il suo “desiderio di annientamento” che lo ha reso il più grande atleta del secolo scorso.

Raccontare Michael Jordan, ma come i Mondiali ’82, di cui si è scritto tanto. Una bella sfida. Che messaggio vuole dare questo spettacolo?

Sono sempre stato dell’idea che uno sportivo vada raccontato innanzitutto con una forte componente umana e in più senza fare sconti alla strepitosa grandezza dei suoi successi. È un po’ come quando ho dovuto raccontare la storia di Luigi Riva in televisione per Sky: non si può negare che sia stato un uomo molto complesso, molto difficile, che si è incatenato all’isola perché doveva proteggere la sua diversità. Non mi piace fare una narrazione eroica dei fenomeni: cerco piuttosto di contemplare tutte le loro nature.

E com’è quella di Jordan?

E la natura di Michael è una natura – diciamo così – diserbante, di una competitività parossistica. Certo, lo è anche Djokovic, lo è Cristiano Ronaldo, lo era Kobe Bryant, lo è Sinner. I grandi sportivi hanno queste caratteristiche ma il desiderio di annientamento che aveva Michael è davvero difficile da trovare. Questo lo ha reso complicatissimo come compagno di squadra ma allo stesso tempo credo sia stato il più grande atleta del secolo scorso, insieme a Muhammad Ali e Maradona probabilmente.

Qual è il suo primo ricordo di Jordan? 

Risale al canestro con cui North Carolina vince a New Orleans il titolo universitario contro Georgetown. Una partita splendida, d’altri tempi. Lui, che non è un tiratore, diventa la scelta di coach Dean Smith. I compagni più famosi si chiedono: “Ma perché lui?”, “È un bambino”. “Mi fido di lui”, dice Smith. E Jordan lo premia segnando quel tiro. Quel canestro fu davvero il momento in cui Jordan si mise sulla mappa del gioco e lo fece ‘alla Jordan’: con la sua facilità di emergere testa e spalle sopra il resto del mondo, sotto pressione. È ciò che fa la differenza tra i grandi campioni e i fuoriclasse assoluti.

Poi diventa giocatore NBA. Io stavo scrivendo la tesi di laurea mentre lui giocava alle Olimpiadi di Los Angeles. Quello fu il suo primo contatto con il basket internazionale e anche lì oggettivamente era un uomo in missione per conto di Dio, come nei Blues Brothers. Lo seguo in NBA, che era già la mia passione anche se non ancora il mio lavoro. Nel secondo anno, dopo l’infortunio, Jordan viene in Italia, in Valtellina. Io ero l’interprete per Enrico Campana, caporedattore basket della Gazzetta dello Sport. In realtà, Jordan parlava un inglese facilmente comprensibile e non serviva un interprete, ma io ho quella fotografia con lui. Anni dopo me la sono fatta autografare a Chicago. È la foto di uno che il giorno dopo deve partire per il CAR a Macerata, ma quel giorno lì non riesco a dimenticarlo. Da lì in poi, credo di averlo visto giocare dal vivo non meno di 80 o 90 volte. E, in più, ho avuto il privilegio di essere giornalista spesso a bordo campo. Stiamo parlando del più grande di tuti i tempi, non credo che nessuno possa nemmeno avvicinarsi.

Ha un aneddoto più significativo risalente a quando ha avuto la possibilità di commentare da vicino le sue gesta?

Il ricordo più significativo per me è la cosiddetta “Nausea Game”, Gara 5 della serie del ’97. Quando arriviamo all’arena (la chiamiamo Palazzo dello Sport per comodità), si era sparsa la voce che Michael avesse avuto un enorme problema gastrointestinale e non fosse in condizione di giocare. Siamo a Salt Lake City, a bordo campo. Flavio Tranquillo mi dice: “Vai a vedere” avendo il permesso di accredito segnato sull’accredito. Io mi metto a un metro da lui. Ha la salvietta in testa, non si sta riscaldando, è immobile come una salamandra. Faccio segno a Flavio – un segno della croce – come a dire: “Non vedo come possa giocare uno in queste condizioni”. Dopo dieci minuti viene annunciato il quintetto: Jordan è in campo. Flavio schiaccia il mute – a casa non si sente nulla – e dice: “Farei far carriera a te come reporter”. E io: “Hai visto com’era? Non si muoveva”. Nei primi due quarti osserva la partita, la guarda più che giocarla. Lo riempiono di flebo. Fanno i cambi prima: invece di uscire al settimo del primo quarto, esce al quinto. Lo gestiscono. Ma all’inizio del terzo quarto si capisce che è rientrato nel suo ritmo abituale. Alla fine segna 37 punti e la vince lui. Si è mitizzato molto su quella partita. Il ragazzo che aveva consegnato la pizza da Pizza Hut disse: “Non abbiamo messo nessuna polverina. In realtà, so io perché è stato così male: aveva il vizio di fumare il sigaro per rilassarsi nella suite, dove strimpellava un pianoforte anche se non sapeva suonarlo. Doveva aprire le finestre per via del fumo. Ma Park City è a 1700 metri e la sera può fare molto freddo. Sicuramente ha preso una botta di freddo ed è stato male per quello”. Dal punto di vista della mistica era più affascinante dire che l’avevano avvelenato. Però di fatto era stato malissimo. Tutti quelli che erano con lui lo sanno. È stata l’ennesima prova della sua capacità di gestire il corpo, le emozioni. Più la situazione si complica, più lui è a suo agio.

Cosa stima maggiormente di lui a livello tecnico e come simbolo dello sport?

L’importanza che dava ai fondamentali. Mai un’infrazione di passi, un controllo sublime del proprio corpo, una tecnica eccellente. I tre anni di basket collegiale con un grande allenatore gli hanno dato una visione più ampia del gioco. Questo amore per il gioco è evidente. Si è messo a giocare a baseball per compiacere il padre, ma anche perché era diventato più importante della NBA stessa – cosa che nello sport capita una volta ogni mai. Jordan era più riconoscibile della Lega in cui giocava e questo era ingestibile per l’NBA. In più si era messo nei guai per scommesse sul golf. Ci sono tante ragioni per cui è andato a giocare a baseball. La più facile da raccontare è che era morto il padre, grande appassionato di baseball. Ma lui amava il gioco. Nei suoi contratti c’era la clausola “love of the game”: poteva giocare fuori stagione se voleva. E non sono molti gli atleti nella storia dello sport che hanno avuto una clausola così.

Lo sport e il teatro. Due mondi apparentemente distinti, però sono entrambi dei palcoscenici. Che sensazioni le dà questo “mezzo”?

Dal 2015 non sono più la stessa persona. Una cosa è raccontare in televisione, che sia un commento sportivo o una narrazione, un’altra è salire su un palco come successe al Teatro Menotti di Milano nel gennaio del 2015. La tua vita cambia. Il rapporto con chi hai di fronte incide su di te e, credo, anche su chi ascolta. È un rapporto diverso, strutturato in modo opposto, con una prossemica totalmente differente, una verità e immediatezza che in TV non si hanno. È un altro campo, un altro palcoscenico. Anche lì, stai giocando.

Era più difficile prima dei social diventare eroi o più facile perché la sovraesposizione “banalizza”?

Michael Jordan è stato un grande anche in un’epoca senza social. Se Muhammad Ali e Jordan avessero giocato oggi, con gli stessi risultati, non potremmo nemmeno calcolare il numero di contatti che avrebbero avuto. Secondo me, sono due dei tre grandi sportivi del Novecento. Poi, ovvio: i brasiliani ti dicono Senna, gli americani Babe Ruth. L’unico altro che forse entra nella discussione è Pelé. Il calcio è il calcio. Ma la potenza espressiva e la capacità di vincere di quei due era pazzesca. Oggi si diventa famosi molto più in fretta. Sei visibile. Gente che prima non sarebbe mai uscita dall’anonimato, ora è visibile. Ma i social tendono a portarti su e poi a farti cadere. Jordan ha vinto sei finali su sei. È un numero che non esiste: sei finali, sei vittorie. Fuori dal mondo. MVP in tutte e sei. Non so si possa neanche immaginare un altro atleta che possa fare così.

Che legami ha con la Liguria e Arenzano? 

Sono genovese per metà. Ogni volta che vado a Genova mi sembra di tornare a casa. Arenzano era il posto dove una famiglia molto amica dei miei genitori aveva la casa e da piccolo ci siamo andati tante volte. Sarò stato su quel litorale almeno dieci volte nella mia infanzia. Non recentemente, però.




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