Cultura

Ethel Cain – Willoughby Tucker I’ll Always Love You

Ricordi e nostalgia: il modo in cui riviviamo il nostro passato dipende, spesso, da ciò che sentiamo nel presente, così come dalle ombre che si allungano, voraci e fameliche, sul nostro futuro. La musica di Ethel Cain è esattamente questo, ovvero un crocevia di sensazioni contrastanti, un caleidoscopio emotivo nel quale convivono la luce e la tenebra, la fragilità e la forza, la disperazione e la redenzione.

Credit: Dollie Kyarn

In un attimo ti trascina all’inferno, dopodiché, nell’attimo successivo, ti spalanca le porte di un paradiso terrestre fatto di suoni eterei, sospesi, eppure radicati in una concretezza quasi brutale. Il suo folk gotico – ammaliante, crudele, sognante e realistico allo stesso tempo – è un rito di passaggio, è una mappa di emozioni che non indicano o suggeriscono vie di fuga, ma ci costringono a restare, a guardare, a sentire, a provare.

“Willoughby Tucker, I’ll Always Love You” conferma questa alchimia: melodie seducenti e linee vocali intime si intrecciano a figure enigmatiche, a metafore sfuggenti, a frammenti di futuri possibili e a simboli antichi, provenienti da un passato remoto che continua a pulsare nelle nostre vene. Senza quel passato oscuro, frastagliato e doloroso, noi non potremmo esistere: Ethel Cain ci ricorda che non c’è vita senza memoria, e non c’è memoria senza il peso delle ombre.

In “Fuck My Eyes” emergono le tensioni più ambigue, mentre l’ascoltatore si lascia trasportare da atmosfere dream-pop suadenti ed illusorie, ciò che affiora è un veleno sottile, nonché le inclinazioni più malvagie del nostro animo, quelle zone di tossicità e di ostilità in cui tendiamo a nasconderci. Ma Ethel Cain non resta ferma al veleno, ma è determinata a cantare, piuttosto, la purezza che sopravvive sotto la cenere, quell’innocenza che i nostri atteggiamenti predatori inquinano e distruggono, ma che può ancora essere riconquistata attraverso un percorso di sofferenza, di compassione, di ammissione e di comprensione profonda.

È qui che si innesta il cuore mitologico dell’album, quel corpo a corpo eterno tra Eros e Thanatos. In brani come “Dust Bowl” sentiamo pulsare lo scontro e l’abbraccio fra la vita e la morte: il sangue e il piacere, il dolore e la passione. Eros, forza creatrice, desiderio, slancio vitale; Thanatos, impulso di annientamento, quiete mortifera, ritorno al nulla. Sono due forze inconciliabili, ma inseparabili; due forze che si intrecciano come amanti destinati a ferirsi a vicenda. Ethel Cain le convoca entrambe nei suoi brani, facendoci percepire quanto fragile sia il confine tra un bacio che salva e uno che avvelena, tra una carezza che consola e un abbraccio che ci trascina giù.

Questa tempesta emotiva non ci lascia mai illesi: ci mette in pericolo, ci fa rischiare di auto-distruggerci o di ferire chi amiamo. Eppure, proprio perché non possiamo eluderla, essa diventa il nostro campo di battaglia più autentico. Sta a noi contenerla, non reprimendola, ma trasformandola in equilibrio, anche attraverso la musica, l’arte, i gesti che custodiscono amore. Perché fingere che tutto sia solamente violenza, sangue e materia bruta significherebbe rinunciare a quella scintilla che continua a guidarci, anche nelle scelte più folli, coraggiose e sconsiderate.

Ethel Cain, in fondo, canta questo, ci sussurra che dietro ogni errore, dietro ogni caduta, dietro ogni rischio, c’è un atto d’amore che ci mantiene veri e vivi. E che forse è proprio questa tensione perpetua – tra Eros e Thanatos, tra rovina e salvezza – a non permetterci mai di smettere di esistere, di desiderare, di ricordare.


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