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Ethel Cain, Alcatraz, Milano – Live Report :: OndaRock


All’Alcatraz di Milano è tutto esaurito, e già dalla strada si capisce che non è un concerto come gli altri: la fila è praticamente chilometrica, un serpentone che invade le vie, pieno di gente eccitata e composta, come se fosse in coda per un rito d’iniziazione. Le nuove generazioni, quelle che spesso liquidiamo come distratte, qui sono attente, curiose, preparate. Nel tragitto incontro una ragazza che mi fa scoprire Nicole Dollenganger — colpa mia arrivarci tardi, ma bello sapere che c’è ancora chi ti parla di musica invece di chiederti se hai il codice del biglietto. Tra il pubblico, un esercito di cosplayer in stile southern gothic, croci ovunque, veli neri, rosari al collo e sguardi persi. Come ai concerti di Taylor Swift, solo che qui nessuno ballerà “Shake It Off”: più facile finire fulminati dallo show di luci e drone che accompagna i due inserti noise di “Perverts”, “Vacillator” e “Onanist”, veri momenti di sabotaggio acustico che disintegrano qualsiasi pretesa pop. Ma andiamo per ordine.

Ethel Cain entra in scena con una felpa di “Perverts” che sembra più una corazza, quasi un modo per nascondersi dal pubblico. Passerà gran parte del concerto trincerata dietro una specie di scranno fatto di vegetazione e un traliccio dell’alta tensione a forma di croce, una scenografia che ti porta subito nel suo mondo: quell’America rurale e fortemente cristiana da cui è facile scappare da giovani verso un sogno di libertà che spesso non finisce bene. Hayden Anhedönia, la ragazza dietro al personaggio Ethel, quel lieto fine l’ha negato al suo alter ego musicale, facendola morire al suo posto come una specie di Dorian Gray della Florida.
La band, giovanissima e granitica, tiene tutto in piedi con una precisione disarmante: quando serve spingere, chitarre e batteria si fanno quasi doom metal con il riverbero a 100, quando invece arriva il momento del folk apocalittico, riescono a essere leggeri e soffocanti allo stesso tempo. Le luci fanno il resto, un continuo gioco di bagliori e ombre che trasforma il palco in una cattedrale spettrale.

La scaletta pesca molto dal nuovo album “Willoughby Tucker, I’ll Always Love You”: “Janie” apre il concerto e prepara il terreno per “Fuck Me Eyes”, accolta come una preghiera collettiva, seguita da “Nettles” e dalla liturgia dark western di “Dust Bowl”, brano in cui è facilissimo perdersi e ritrovarsi in una sorta di esperienza fuori dal corpo.
Poi arrivano i due momenti noise già citati, “Vacillator” e “Onanist”, che devastano il cervello e introducono il gran finale dell’album, con “A Knock At The Door” che precede “Tempest”. Su quest’ultima vale la pena fermarsi: è uno slowcore in crescendo, come se i Codeine e i Low avessero partorito il seme del male insieme agli Explosions In The Sky, e quel seme fosse stato piantato in un campo di riverbero assassino. Ethel e Willoughby in questa canzone si perdono per sempre, l’amore si chiude in modo straziante e lascia straziato anche il pubblico milanese.

Quando sembra finita, Ethel aggiunge “Sun Bleached Flies”, una delle canzoni più belle che abbia mai scritto e la prima della serata tratta dal capolavoro “Preacher’s Daughter”, da cui in questo tour arrivano purtroppo pochi estratti.
Finito il rito collettivo, Hayden torna per due bis: “Crush” e “American Teenager”, unico neo della serata, perché di solito sono tre. Ma va bene così. I due brani più “pop” – anche se chiamarli pop è un po’ difficile, leggete i testi e ne riparliamo – servono a liberare il pubblico da quella sorta di incantesimo oscuro che lo ha tenuto sospeso per quasi due ore. Prima dei saluti c’è pure un siparietto: Ethel Cain raccoglie una bandiera italiana lanciata dal pubblico, nel mezzo la sua immagine mentre mangia spaghetti. Sorride, saluta, scompare. L’anti-diva perfetta.
Resta la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico: un concerto che è stato più un rito che uno spettacolo, un’esperienza catartica di dolore, bellezza e distorsione. Ethel Cain non sta semplicemente riscrivendo il pop americano: lo sta smontando, pezzo per pezzo, e lo ricompone come una croce elettrica in un campo di grano. Ventisette anni, una visione gigantesca, e il merito di essere la prima donna transgender ad aver portato un album nella top ten americana. All’Alcatraz, per una notte, il pop generalista è morto e risorto come musica di genere sotto un lampo di luce strobo.




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