Società

Elezioni americane: Kamala Harris ce la farà?

La tremenda strage che gli oppioidi fanno da decenni soprattutto fra i bianchi del Midwest – fenomeno purtroppo in rapida esportazione – è solo un indicatore di una più vasta categoria di decessi che gli economisti Anne Case e Angus Deaton hanno chiamato «morte per disperazione», non avendo altra categoria a cui fare appello per dare ragione del fenomeno. Il Surgeon General, una specie di alto ufficiale della salute pubblica, ha detto anni fa che la patologia più
grave che affligge gli americani è la solitudine. Più di recente ha spiegato che i social media dovrebbero mettere un’avvertenza per i danni cerebrali che fanno ai ragazzi nell’età dello sviluppo, fenomeno conclamato e recentemente raccontato in modo persuasivo dallo psicologo Jonathan Haidt in The Anxious Generation, che è chiaramente già uno dei libri più importanti del nostro decennio. L’onnipresenza delle armi da fuoco, diritto sancito dalla Costituzione che viene esteso ogni giorno verso armamenti paramilitari con capacità letali fuori scala, rende lo spazio della società civile il teatro di una perenne guerra in potenza. In un Paese dove ci sono 120 armi per ogni 100 persone (avete letto bene), è statisticamente lecito concepire il vicino di banco o la persona seduta accanto a noi in autobus come un possibile sparatore.

Queste promesse tradite hanno generato rabbia, sentimento politico esplorato dallo studioso Carlo Invernizzi-Accetti in un libro importante uscito da poco, Vent’anni di rabbia (Mondadori). Grandi ondate di protesta – Occupy, MeToo, Black Lives Matter, Fridays for Future – hanno scosso il Paese, lasciando finora il senso di iniziative incompiute o che non hanno avuto la forza per influenzare davvero la politica. Dietro a molti di questi movimenti si è materializzata una
convinzione: l’America è l’irredimibile impero del male costruito sul sangue degli schiavi, sull’oppressione patriarcale, razziale e di genere, sullo sterminio dei nativi, sullo sfruttamento predatorio delle risorse, non un progetto animato da ideali buoni che deve darsi da fare ogni giorno per metterli in pratica. È una costruzione che va demolita, non ristrutturata.
Ma l’altro sentimento politico che si è manifestato in questa era della delusione è forse ancora più pericoloso: la nostalgia. Questa ha intaccato soprattutto la classe politica. Trump vuole fare l’America grande again, predica un revival dei mitizzati e inesistenti anni Cinquanta, ha rispolverato il vecchio slogan isolazionista America First, evoca un fantasioso mondo pre-globalizzato, vende una riedizione di cliché culturali e provinciali, promesse di benessere che
vanno cercate nello specchietto retrovisore. Ha scelto non a caso come candidato vicepresidente J.D. Vance, senatore dell’Ohio, 40 anni il 2 agosto, che con il suo Elegia americana è stato il cantore degli hillbilly, i bianchi della working class stritolati dalla deindustrializzazione, impoveriti dai trattati che hanno portato i posti di lavoro in Messico e uccisi dagli agevolati canali commerciali che hanno portato il Fentanyl dalla Cina. Vance è il testimonial del popolo che affoga nel ricordo di un’età dell’oro e vuole vendicarsi di chi l’ha distrutta. A sua volta, il Partito democratico va istintivamente a rifugiarsi negli anni Novanta della crescita, del progresso, della gestione della politica come esclusivo affare di palazzo, del potere come cooptazione e clientela, delle solite élite allevate nelle università dell’Ivy League, di minoranze che si allineano alle indicazioni del partito, del segreto sdegno per la cultura della working class. Anche i democratici sono caduti in questo equivoco nostalgico, e la lunga ostinazione di Biden prima di cedere il passo a Harris è anche figlia del tentativo di sottrarsi alle sfide del futuro rifugiandosi nel passato.


Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »