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Edwige Pezzulli, astrofisica di Superquark e divulgatrice: «Mia madre faceva la cameriera, mio padre era disoccupato. Ma sapevano che la cultura era la chiave per un futuro migliore»

C’è chi guarda il cielo per perdersi, e chi, come Edwige Pezzulli, lo scruta per ritrovarsi. Astrofisica e divulgatrice, ha fatto delle stelle il proprio orizzonte. Dopo anni di lavoro al fianco di Piero Angela, oggi ha curato – insieme a Lorenzo Pinna – La straordinaria storia dell’Universo (in libreria per Mondadori con Rai Libri), edizione per ragazzi dello storico Tredici miliardi di anni. Un viaggio che comincia con il Big Bang e arriva fino a noi, pensato per chi si affaccia per la prima volta alla meraviglia del cosmo, ma anche per chi cerca una bussola in tempi incerti.

Edwige Pezzulli, come ha scoperto che l’Universo sarebbe stato la sua «casa»?
«Un po’ per caso. Al liceo classico pensavo di studiare filosofia, poi venne a scuola un fisico, Gianni Battimelli della Sapienza, insieme a un matematico. Iniziarono a discutere – anche animatamente – su cosa fosse davvero la fisica. E il fisico disse: “Queste equazioni sono strumenti per farci domande e cercare risposte”. Quelle parole mi folgorarono, e quell’incontro ha cambiato la traiettoria della mia esistenza. Anni dopo glielo dissi, e lui fu felice di saperlo. Il fatto di potersi fare grandi domande e di avere piccola cassetta degli attrezzi per costruire risposte dà un senso di potenza, e allo stesso tempo allontana dalle questioni umane e insegna a ricollocare l’essere umano in un posto che gli è proprio».

Chi sono stati i suoi riferimenti? La sua famiglia l’ha sostenuta?
«Sono la prima laureata della mia famiglia. Mio padre è stato a lungo disoccupato, mia madre faceva la cameriera. Ma ho avuto una fortuna enorme: mi hanno insegnato a non avere paura. La cultura, per loro, era una chiave per immaginare un futuro diverso. I miei genitori non avevano titoli, ma avevano lo sguardo lungo. Mi hanno sempre detto: segui quello che ti entusiasma. E io, di entusiasmo, ne avevo tanto».

Ha incontrato difficoltà all’università?
«La facoltà di fisica richiede un impegno totale: orari serrati, esercitazioni continue, una struttura che somiglia più a una scuola superiore che a un luogo flessibile. Io lavoravo durante gli studi, e conciliare tutto era complicato. C’erano meccanismi premiali per chi riusciva a seguire “a tempo pieno”, ma per chi come me veniva da un’altra realtà sociale era una corsa a ostacoli. Eppure proprio questo mi ha dato forza: sapevo che quello sforzo era la mia via di fuga da un destino scritto da altri».

Ha lavorato con Piero Angela fino alla sua morte. Ricorda il primo incontro?
«Sì, eccome. Avevo appena ricevuto una proposta per una bella posizione di ricerca negli Stati Uniti, quando mi arrivò una mail per incontrare Piero Angela e discutere di un nuovo programma. In Italia la divulgazione scientifica non era ancora considerata un vero mestiere. Ma io ci vedevo una forte valenza politica: era uno strumento per ridistribuire un bene comune, la scienza, che è uno strumento di comprensione e autodeterminazione. Piero Angela aveva portato la scienza nella tv generalista, nelle case di chi non leggeva libri: per me era un gigante».

Cosa l’ha colpita di più di lui, lavorandoci insieme?
«La sua capacità di ascolto. Prima di mandare in onda un pezzo, lo faceva sentire alla signora delle pulizie. Se la vedeva disorientata, faceva rifare tutto. Aveva un rispetto assoluto per chi ascoltava. Leggeva ogni parola che scrivevamo: anche con una squadra di autori eccellenti, non delegava mai l’ultima lettura. Questo livello di attenzione è raro, e questo insegnamento me lo porto dentro ogni giorno».

Quando le è stato proposto di riadattare Tredici miliardi di anni per lettrici e lettori più giovani, come ha reagito?
«Con gioia, ma anche con senso di responsabilità. Era la prima volta che il libro di Piero Angela veniva riadattato. E poi c’era da onorare un patto di fiducia. Ho provato a mantenere intatto lo spirito originario, ma anche a inserire una visione personale: ho voluto spostare l’essere umano dal centro, e puntare su concetti come cooperazione e interdipendenza. Lo insegna il cielo: quando lo guardi, ridimensioni te stesso e riconosci la tua umanità».

Lei ha scelto di restare in Italia, nonostante una brillante offerta di lavoro negli Usa. Perché?
«Perché voglio restituire qualcosa nei luoghi da cui vengo. Lavoro con bambini ad alto rischio di dispersione scolastica, porto l’astrofisica nelle carceri. La scienza è uno strumento potente anche lì, forse soprattutto lì. Quando incontri chi vive ai margini e parli di Universo, lo sguardo si apre. A Centocelle organizziamo festival di scienza in piazza. Intercettare chi normalmente non ha accesso a questi contenuti è il mio modo di fare divulgazione. È lì che voglio essere».

Perché è ancora importante parlare di genere nella scienza?
«Perché oggi la discriminazione è più sottile, ma c’è ancora. Non ti dicono più: “Sei donna, non puoi farlo”, ma ti spiegano di nuovo quello che hai appena detto, come se non avessi capito. È una discriminazione simbolica, difficile da nominare. Io provo sempre a invertire i ruoli: se la scena mi suona strana a parti invertite, allora c’è un problema. E poi c’è la questione sociale, che mi sta molto a cuore: la scienza è ancora troppo poco accessibile a chi viene da contesti fragili. I laureati sono spesso figli di laureati. È su questo che dobbiamo lavorare».

Cos’ha imparato lei dalla scienza?
«Che la scienza non è mai solo teoria. Mentre vivevo la grave malattia di un familiare, capire quello che stava accadendo mi ha aiutata a non crollare. Osservare il cielo è stato il mio modo per restare in piedi, per ridisegnare la paura in uno spazio più grande. Questo è il dono più grande della scienza».


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