Educatrice chiama mio figlio senza cervello”, madre abbandona centro estivo: “YouTube e TikTok meglio di questi pseudo-educatori violenti
C’è un grido di dolore che attraversa la lettera di Chiara al Sole 24 Ore, e non è solo quello di una madre indignata. È il grido di migliaia di genitori italiani che ogni anno si scontrano con la realtà dei centri estivi, quelli che dovrebbero essere luoghi di crescita e divertimento per i bambini, ma che troppo spesso si rivelano semplici parcheggi gestiti da personale inadeguato.
Chiara racconta la sua storia con la precisione chirurgica di chi ha vissuto sulla propria pelle l’assurdità del sistema. Quattordici settimane di vacanze scolastiche da riempire per i suoi due figli di 10 e 12 anni. Quattordici settimane che diventano un puzzle impossibile fatto di ferie limitate, centri estivi costosi, oratori che aprono solo se c’è l’animatore giusto, camp sportivi legati alle amicizie dei figli.
Un labirinto organizzativo che ogni genitore italiano conosce fin troppo bene, dove ogni tessera deve incastrarsi perfettamente con le altre: i turni di lavoro, lo smart working, i soldi disponibili, la rete di supporto familiare. “Finalmente dormi sonni tranquilli”, scrive Chiara descrivendo il momento in cui pensi di aver risolto tutto. Le iscrizioni sono andate a buon fine, hai trovato posto, hai trovato i soldi, hai trovato gli amici giusti per i tuoi figli. La gigantesca macchina sembra finalmente avviata e funzionante.
Quando un’insegnante diventa un incubo
Ma poi arriva il masso che blocca tutto. E in questo caso il masso ha un volto preciso: un’insegnante di scuola elementare che durante l’estate arrotonda lo stipendio lavorando in un camp sportivo. Una professionista dell’educazione che, forse esasperata dall’ottava settimana di lavoro estivo, sbotta con il figlio di Chiara urlandogli in faccia che è “SENZA CERVELLO” e prendendolo in giro davanti agli altri bambini.
Non stiamo parlando di un rimprovero severo o di una sgridata. Stiamo parlando di violenza verbale perpetrata da chi dovrebbe essere un modello educativo. E quando Chiara, giustamente, chiede spiegazioni al responsabile del centro, si trova davanti a un muro di indifferenza e giustificazioni. Non solo il responsabile non è dispiaciuto per l’accaduto, ma è addirittura scocciato che una madre osi chiedere conto di un simile comportamento.
Chiara si definisce “un genitore sempre dalla parte degli adulti, sempre dalla parte di chi ha il diritto di avere collaborazione dalle famiglie”. Non è una di quelle madri che difende sempre i figli a prescindere. Ha sempre sostenuto insegnanti, educatori e allenatori nel tenere una linea dura con i suoi ragazzi, riconoscendo l’importanza dell’autorità educativa. Ma c’è un limite che non può essere superato: le offese non sono educazione, sono violenza.
La decisione dolorosa: meglio soli che male accompagnati
E così Chiara prende la decisione più difficile: ritira i figli dal centro. Una scelta che la lascia con due settimane scoperte, senza alternative, pur essendo disposta a pagare qualsiasi cifra pur di trovare una soluzione. Ma non è solo una questione pratica: è una questione di principi. Non può accettare che i suoi figli frequentino un ambiente dove chi dovrebbe educarli li umilia e li insulta.
La sua denuncia si allarga poi a un quadro più ampio e desolante: centri estivi gestiti da organizzazioni improvvisate che assumono personale svogliato e spesso incompetente. Animatori giovanissimi sempre attaccati al cellulare, disinteressati ai bambini che dovrebbero seguire, che vedono l’estate solo come un’occasione per racimolare soldi facili sulle spalle di genitori disperati.
Il paradosso dei videogiochi: quando il virtuale è più sicuro del reale
E qui arriva la provocazione più forte di Chiara, quella che dovrebbe far riflettere tutti noi. Si chiede se i videogiochi tanto demonizzati, i video di YouTube e TikTok, i tornei di Fortnite con amici virtuali, non siano forse il “male minore” per questa generazione. Una domanda che ribalta completamente la prospettiva tradizionale sull’educazione digitale.
Se un bambino davanti a uno schermo è al sicuro da insulti e umiliazioni, se nei giochi online trova rispetto e riconoscimento che non trova negli ambienti educativi “reali”, allora forse il problema non sono i device, ma gli adulti che dovrebbero occuparsi di lui. “Forse il vero problema siamo noi adulti”, scrive Chiara, “che non abbiamo nessuna voglia di metterci in contatto con loro e iniziare a vederli per quello che sono davvero”.
I ragazzi di oggi crescono in una società dove si “nega l’evidenza, si alza la voce per niente, si hanno pregiudizi come stile di vita e preconcetti come valore esistenziale”. Una società di adulti che predicano il rispetto ma poi insultano un bambino di 10 anni chiamandolo “senza cervello”. Una società che demonizza il digitale ma poi offre alternative educative talmente scadenti da rendere preferibile l’isolamento virtuale.
Una riflessione che ci riguarda tutti
La lettera di Chiara è molto più di uno sfogo personale. È uno specchio in cui si riflette il fallimento di un sistema che dovrebbe proteggere e educare i più piccoli ma che invece li abbandona nelle mani di persone inadeguate. È la fotografia di un Paese che ogni estate lascia migliaia di famiglie sole davanti al problema di come gestire i propri figli, costringendole a soluzioni di fortuna spesso dannose.
Quando una madre arriva a pensare che i videogiochi siano meglio dei centri estivi, quando preferisce lasciare i figli a casa piuttosto che affidarli a presunti educatori, significa che qualcosa nel nostro sistema educativo si è profondamente rotto. E la domanda di Chiara resta lì, sospesa: in una società così, chi sono veramente i “senza cervello”?
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