Due celebri capolavori di Brahms e Beethoven inaugurano il 2025 dell’Auditorium Parco della Musica
L’orchestra di Santa Cecilia, diretta dal Maestro Myung-Whun Chung, in una magistrale e applauditissima esecuzione del Concerto per violino e orchestra in re maggiore n. 77 (violino solista Sergey Khachatryan), e della Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 di Beethoven.
Abituati da anni a seguire i concerti romani del Maestro Myung-Whun Chung, non avevamo alcun dubbio sul successo che avrebbe coronato anche quello di stasera, domenica 12 gennaio 2025. D’altronde in programma vi erano opere universalmente note e amatissime dal grande pubblico dei musicofili, quali il Concerto per violino e orchestra di Brahms (violino solista l’armeno Sergey Khachatryan, che debuttò giovanissimo, nel 2008, con l’orchestra di Santa Cecilia) e una delle sinfonie beethoveniane, la Settima, per molti forse la più perfetta tra le nove composte dal genio di Bonn.
E tuttavia l’esecuzione offerta dagli orchestrali diretti dal Maestro coreano e, limitatamente al concerto di Brahms, dal violinista armeno, è andata al di là di ogni rosea aspettativa, tanto da suscitare l’entusiasmo, quasi incontenibile, del foltissimo pubblico presente.
In effetti ambedue le opere posseggono tutte le qualità atte a catturare l’interesse, la partecipazione e il coinvolgimento emotivo e sentimentale di qualsiasi ascoltatore, e ciò a prescindere dal grado più o meno elevato di conoscenza e formazione musicali.
Il concerto per violino di Brahms (anno di composizione 1878), per il quale il Maestro amburghese non nascose di essersi ispirato all’analogo di Beethoven (composto nel 1806), possiede comunque un’originalità peculiare che ne ispira la solida struttura, sprigionando calore, goia e luminosità, con un primo movimento (allegro non troppo) ampio e disteso, giocato su un dialogo armonico e unitario tra solista e orchestra, entrambi alla ricerca continua di una fusione tra loro; segue poi un secondo movimento (adagio) fervido e sognante, con un violino che si esprime, in un esercizio a volte di ardua perizia virtuosistica, con un canto di struggente e malinconica tenerezza e in una commovente e dolcissima melodia; il terzo movimento (allegro giocoso, ma non troppo vivace) è animato da un vigore brillante, tipico dei modi ungheresi e tzigani adottati da tutti i classici viennesi, che prorompe con esuberanza nel travolgente Finale, un rondò vorticoso e travolgente.
Il Concerto brahmsiano, da sempre severo banco di prova per tutti i più rinomati e violinisti di ogni parte del mondo (ricordiamo, per avervi assistito e proprio a Roma con l’orchestra di Santa Cecilia, le memorabili esecuzioni di Nathan Milstein nel 1980, di Itzhac Perlman nel 1986, di Uto Ughi nel 1988 e nel 1997) è espressione di quell’atmosfera tardo romantica che, nonostante le critiche per niente benevoli di musicologi come Adorno, conta ancora oggi sul consenso appassionato di legioni di appassionati e instancabili cultori della grande musica strumentale del secolo XIX.
Il secondo tempo del Concerto è stato occupato interamente dall’orchestra, impegnata magistralmente nella grandiosa e (soprattutto nel quarto e ultimo movimento) rapinosa Settima sinfonia beethoveniana la quale, a detta di molti critici e storici della musica, s’identifica in una “dionisiaca”, esplosiva, incessante “galoppata” di vitalità.
La Settima, composta ed eseguita per la prima volta nel 1913, si distingue nettamente tanto dai toni e dall’andamento distesamente idillico della Sesta, quanto dall’eroica drammaticità della Quinta; “dionisiaca” la definì nel 1899 Gustav Mahler, ma già nel 1849 Richard Wagner aveva scritto, della Settima, che “ogni impeto, ogni brama e tumulto del cuore diventa qui una deliziosa esuberanza della gioia che si trascina con bacchica onnipotenza attraverso tutti gli spazi della natura, attraverso tutti i fiumi e i mari della vita, sempre giubilante e con la perfetta coscienza del terreno sul quale ci inoltriamo al ritmo audace di questa umana danza celeste”.
Se quanto detto da Wagner vale soprattutto per il fantastico quarto movimento (allegro con brio), non si può però trascurare l’enorme fascino che, fin dalla prima esecuzione, suscitò il secondo movimento (allegretto) che, apparentemente semplice, viene aperto da due accordi dolenti, quasi una sorta di lenta marcia funebre in la minore, un tema seguito immediatamente da un motivo nuovo, più lirico e disteso, quasi cantabile; un elemento ritmico e una melodia che, alternandosi, determinano tutto l’allegretto, la cui durata non supera i dieci minuti; da esso sprigiona un fascino misterioso e ambiguo, unito al tono trasognato e disteso.
Un concerto che, grazie all’eccezionale bravura dei suoi interpreti, conferma per l’ennesima volta l’inestinguibile capacità attrattiva della grande musica e il suo essere l’unico e universabile linguaggio in grado di abbattere tutte le differenze, le barriere e le distanze esistenti in un’umanità mai come oggi alle prese con drammatici problemi (guerre, massacri, cambiamenti climatici) la cui mancata risoluzione sembra mettere a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta. Da questa musica un messaggio d’inestinguibile speranza in un anno giubilare ad essa dedicato.
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