Dove va il dollaro? L’unilateralismo della politica Usa
Our Dollar, Your Problem è il titolo dell’ultimo libro di Kenneth Rogoff, professore all’Università di Harvard ed ex capo economista del Fmi. La locuzione fu pronunciata nel 1971 da John Connally, segretario al Tesoro sotto l’amministrazione Nixon, durante un incontro con alcuni leader europei, irritati per la decisione americana di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, imporre tariffe sulle importazioni e lasciare svalutare la moneta statunitense.
Con cinismo, Connally sintetizzava l’unilateralismo della politica economica americana, volta a proteggere la propria economia senza curarsi degli effetti negativi sugli altri Paesi. Era un momento chiave del “Nixon Shock”, quando il presidente annunciò di fatto la fine del sistema monetario internazionale disegnato a Bretton Woods nel 1944.
Anche in quegli anni, come oggi, gli Stati Uniti registravano un forte disavanzo della bilancia commerciale, cui faceva da contrappeso un imponente accumulo di attività finanziarie in dollari da parte delle banche centrali e del settore privato degli altri Paesi. Queste attività non avrebbero potuto essere convertite in oro, come previsto da Robert Triffin nel suo famoso dilemma, che metteva in luce la difficoltà della valuta che funge da riserva globale di fornire ampia liquidità garantendo al contempo fiducia.
La moneta americana, dopo un periodo di turbolenza, non perse tuttavia la sua centralità, come avevano previsto molti economisti, tra cui Charles Kindleberger. Grazie alla forza delle sue istituzioni, alla ritrovata indipendenza della Fed, alla presenza di mercati finanziari liquidi e profondi, e alla solidità della sua economia e del suo apparato militare, il dollaro rimase l’“ancora” per molti Paesi, la principale valuta di riserva, di fatturazione e di finanziamento degli scambi internazionali. Le economie di rete – tutti la usano perché lo fanno tutti gli altri – rafforzarono ulteriormente la posizione della moneta americana, tant’è che alcuni economisti parlarono di un secondo Bretton Woods.
Come ha sottolineato per primo Valéry Giscard d’Estaing, ciò ha conferito agli Stati Uniti «enormi privilegi», poiché ha permesso loro di indebitarsi a bassi tassi d’interesse, gestire deficit commerciali enormi e persistenti, ed emettere grandi quantità di moneta e titoli governativi (36 trilioni di dollari!) per finanziare i disavanzi pubblici.
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