Doobie Brothers – biografia, recensioni, streaming, discografia, foto :: OndaRock
Direi che Ray Charles è sicuramente l’artista che più ha influenzato il mio modo di cantare. Ma anche Marvin Gaye e Stevie Wonder.
(Michael McDonald)È difficile credere che siano passati più di cinquant’anni da quando ci siamo incontrati per la prima volta, da quando è nata questa cosa chiamata Doobie Brothers. Ne abbiamo passate tante insieme, e il fatto che suoniamo ancora oggi è qualcosa di cui siamo profondamente grati.
(Pat Simmons)“Eravamo tutti in studio, non avevamo ancora trovato la canzone giusta, e ho detto: fatela su un treno, visto che c’è questa storia di Miss Lucy lungo i binari. Così è venuta fuori ‘Long Train Runnin’”.
(Ted Templeman)
Un lungo viaggio
Quella dei Doobie Brothers è una lunga storia, o meglio di quelle che sembrano lunghe storie, ma invece scorrono rapide come un treno ad alta velocità. Una delle stazioni di partenza per chi vuole riavvolgere questo nastro musicale è Visalia, nell’area più centrale della California. Sulla madre di tutte le strade, la 66, dove John Ernst Steinbeck ambienta il suo capolavoro, “The Grapes of Wrath”, meglio noto in italiano con il titolo di “Furore”.
A Visalia si sono trasferiti da poco i Johnston, a bordo di una Ford stracolma di roba, dalla caotica Los Angeles alla metà del 1933. Prima della nascita del terzo figlio, Charles Thomas, la famiglia Johnston si mantiene grazie alle abilità paterne in ambito ingegneristico, dopo la partenza per la guerra in qualità di meccanico aviatore per la Army Air Force. Nato nel 1948, Charles Thomas passa la sua adolescenza tra eliche, motori e altri componenti da riparare, praticamente ogni maledetta e afosa estate nel negozio di famiglia, nel sobborgo di Tulare. Il giovane Tom, come viene chiamato da tutti, si annoia a morte, non è portato per le riparazioni: inganna il tempo ascoltando il programma “Happy Harold’s House of Blues”, in onda sulle frequenze di una radio locale in trasmissione dall’area di Fresno. Respinte le pressanti ingerenze della chiesa metodista, Tom si appassiona al rock’n’roll grazie ai dischi portati a casa dal fratello maggiore, da Elvis Presley a Little Richard.
Tra i primi giri di birra e le scorribande in città dopo la patente, Tom lavora alla chitarra da diversi anni, avendo imparato tonnellate di canzoni tra blues, R&B e rock’n’roll. Dopo le prime esibizioni amatoriali con amici della scuola, quando è iscritto al College of the Sequoias, il giovane Johnston ha già accumulato una discreta esperienza in campo musicale, suonando ora nella soul band locale The Charade. Tom inizia a scrivere canzoni, faticando sugli accordi e sulle armonie vocali, in una band nera per ascoltatori neri. È un’autentica folgorazione alle radici della musica del diavolo, quando escono i seminali “Blues Breakers With Eric Clapton” e “Born Under A Bad Sign” sulla leggendaria etichetta Stax.
Tom riflette seriamente sulla possibilità di trasferirsi nella elettrizzante Bay Area, mentre scrive i suoi primi brani originali con gli Charades, il singolo blues per pianoforte “Sittin’ In Prison” accompagnato dalla B-side hendrixiana “Burning”. Durante il primo viaggio verso la costa ovest, Johnston valuta un lungo contratto offertogli da una sconosciuta etichetta funky, rifiutato coraggiosamente prima di tornare a Visalia.
Ma il richiamo di un panorama musicale in pieno fermento è troppo forte per il ragazzo, che abbraccia il movimento hippie facendosi ospitare a Los Angeles dalla sorella maggiore. Dai Jefferson Airplane a Janis Joplin, l’estate del 1967 è pura magia, alimentata dall’uso costante di erba e da un sound che porta il blues e l’R&B a sfondare le porte della percezione.
La seconda stazione da cui parte il lungo viaggio dei Doobie Brothers è quella di Aberdeen, nello stato di Washington, dove nell’ottobre 1948 nasce Patrick Simmons. I genitori di Pat sono entrambi insegnanti, uniti in matrimonio dopo essersi conosciuti al Eastern Washington State College nei dintorni di Spokane. Durante le estenuanti giornate di pioggia, Pat passa il tempo leggendo fumetti, ma soprattutto imparando a suonare il pianoforte a casa di Lucy Anderson, nonna di un amico a scuola. La signora Anderson insegna al ragazzo le basi dello strumento, avvicinandolo alla lettura degli spartiti musicali, mentre alla radio passa lo show di Liberace, l’estroso attore e cantante di origini italo-polacche, tra gli artisti più famosi e pagati del momento. Le sessioni terminano alla fine del primo anno di scuola primaria, quando la famiglia Simmons si trasferisce in California, a Palo Alto prima e a San Jose poi, seguendo gli spostamenti professionali del padre di Pat.
A nemmeno dieci anni, rimane affascinato dall’energia di gente come Little Richard, Chuck Berry, Everly Brothers e ovviamente Elvis, grazie alla sterminata discografia portata in dote da un amico paterno trasferitosi per qualche mese a casa Simmons. A differenza di Tom Johnston – che sostanzialmente impara a suonare ad orecchio – Patrick Simmons decide di prendere lezioni di chitarra acustica a casa di un amico di scuola, i cui genitori sono entrambi musicisti in un gruppo country. Assiduo spettatore dei programmi in tv condotti da Ed Sullivan e Dick Clark, Pat legge autori come Allen Ginsberg, Neal Cassady e Jack Kerouac, supremi alfieri della controcultura a stelle e strisce. Le parole infuocate della beat generation bruciano nell’animo di Simmons, ormai deciso nell’intraprendere una carriera da musicista. Senza il benestare dei genitori – che vorrebbero per lui una carriera accademica – Pat inizia a suonare in giro con gli amici Owen Snyder e Joe Weed, raggranellando qualche dollaro grazie a un lavoro part-time in una stazione per il rifornimento di benzina.
Con i capelli sempre più lunghi e la sigaretta di marijuana in bocca, Pat Simmons decide di trasferirsi a diciassette anni in una tenuta di campagna nei dintorni di Los Gatos, dove vive già un amico di scuola. I proprietari non chiedono affitto, a patto che gli inquilini lavorino la terra circostante, ma l’esperienza dura poco, perché i genitori lo richiamano all’ordine nel giro di qualche settimana. Viene istituito così il divieto di suonare in band di rock’n’roll, costringendo Pat a unirsi a gruppi locali che seguono la cosiddetta British Invasion, dai Beatles agli Zombies.
Fugge nuovamente da casa, andando a dormire praticamente sull’albero al centro del giardino di un altro amico a Santa Cruz Mountains, incontrando alcuni membri della band locale Chocolate Watchband. Nel 1966 il loro singolo “Sweet Young Thing” è in heavy-rotation sulle frequenze di tantissime radio della Bay Area, portando la band a esibirsi al Fillmore di San Francisco. Durante la serata, Pat assume la sua prima dose di acido, che lo porta sì a scoprire il sound dei Grateful Dead, ma anche a un breve periodo di detenzione.
Tornato a casa, si iscrive alla San Jose State University su pressione dei genitori, che sperano di rimetterlo in riga con gli studi. Nello stesso ateneo arriva anche Tom Johnston, trasferitosi finalmente a tempo pieno da Visalia per intraprendere gli studi in grafica e design. Non troppo convinto della effettiva possibilità di diventare un designer professionista, Tom inizia a lavorare in un conservificio per evitare a tutti i costi di tornare a casa, potendo così permettersi di pagare una quarantina di dollari al mese per una piccola stanza vicina allo studentato della San Jose State. È praticamente il posto perfetto per vivere appieno l’atmosfera universitaria, tra fiumi di birra, sostanze stupefacenti e musica a tutto volume.
Anche Pat trova un nuovo lavoro, in un’azienda che produce distributori automatici, spendendo i pochi soldi guadagnati per partecipare ai concerti, in primis quello di Jimi Hendrix al Winterland di San Francisco. Ormai ripudiato dai genitori, Patrick Simmons si avvicina al guru psichedelico Timothy Leary, iniziando a consumare cocaina mentre si esibisce in giro con la sua chitarra acustica, fino all’incontro decisivo con il nuovo amico musicista Dave Shogren, che spesso suona in diverse jam nell’appartamento in Twelfth Street dove vive Tommy Johnston.
Ogni giorno più vicini
Trascorsi i fasti psichedelici della Summer of Love, Tom Johnston entra in contatto con Skip Spence, fondatore con Matthew Katz dei Moby Grape. Ex-batterista dei Jefferson Airplane, Spence ha messo in piedi una sua band passando alla chitarra ritmica, esordendo dal vivo a San Francisco prima di fare il botto al Monterey Pop Festival. Assiduo consumatore di ogni tipologia di droghe, Skip è finito per qualche mese in un ospedale psichiatrico a New York, messo alla porta dai suoi stessi compagni di band a causa di un comportamento sempre più schizofrenico e violento.
Nell’appartamento in Twelfth Street c’è anche lui, insieme a un giovane batterista originario di Falls Church, in Virginia. John Hartman è un grande fan della musica dei Moby Grape, convinto dallo stesso Spence a trasferirsi in California per seguire il suo sogno di diventare un musicista professionista. Johnston stringe così amicizia con Hartman e con l’amico bassista Greg Murphy forma un trio chiamato Pud, sperimentando tra hard-rock, blues e R&B. Durante un concerto, è lo stesso Skip Spence a presentare i Pud a Patrick Simmons, impressionato a prima vista dal talento dei tre.
Tom invita Pat a suonare con loro più stabilmente, attirato dalla sua tecnica in fingerpicking e dalla conoscenza più profonda di generi antichi come folk e blues. L’idea di Johnston è di ampliare il ventaglio sonico della sua band, innestando altre voci e stili chitarristici, così Pat viene invitato a suonare con i Pud, ma inizialmente è Simmons a rifiutare, dato il suo coinvolgimento in un’altra band, gli Scratch. Quando torna a vederli dal vivo, Pat rimane folgorato dall’introduzione di una sezione fiati decisa da Johnston, così inizia a partecipare alle estenuanti jam session nell’appartamento in Twelfth Street, con il nuovo bassista Dave Shogren al posto di Greg Murphy.
Il gruppo viene invitato da Skip a provare qualche demo in studio di registrazione, prima di esibirsi assiduamente allo Chateau Liberté, fino alla metà degli anni 60 un ristorante e resort gestito a livello familiare nell’area di Santa Cruz Mountains. Trasformato in un music club libertino, Chateau Liberté vede radunarsi diverse tipologie di pubblico, dagli intellettuali bohémien ai biker come gli Hells Angels. Poco prima di un concerto, mentre fanno colazione tra cereali e spinelli, Tom e Pat sono d’accordo sulla necessità di trovare un nuovo nome al gruppo. “Let’s smoke a doobie”, propone qualcuno. “Ehi, ragazzi – dice un amico comune – fumate tutta questa erba, dovreste chiamarvi Doobie Brothers!”.
Non ancora convinti della scelta fatta sul nome, i neonati Doobie Brothers lavorano ancora una volta in studio per registrare altri demotape, suscitando un primo interesse da parte di etichette importanti come A&M e Warner Bros. Quest’ultima è rappresentata dal responsabile A&R Ted Templeman, che assiste al concerto allo Chateau Liberté perché a caccia di nuovi talenti nella Bay Area. Templeman vive come un’epifania tra i ribelli di Santa Cruz Mountains, affascinato dalla forza grezza del canto di Johnston e dal talento più fermo e pacato di Simmons. Sente di aver trovato un gruppo di grande valore, delle potenziali star da mettere subito sotto contratto. Dopo gli inevitabili confronti interni, Pat e Tom sono più che felici di accettare il corteggiamento di Templeman, dal momento che la Warner Bros ha una buona reputazione in termini di disponibilità e libertà offerta agli artisti.
All’alba degli anni 70, i Doobie Brothers firmano il contratto con l’etichetta statunitense, ricevendo quasi 3.000 dollari a testa. Parte del denaro viene subito investito in nuovi strumenti e amplificatori, stipati nel van che porta la band a girare per tutta la California, fino ai Pacific Recorders, gli studi di registrazione scelti dalla Warner per lavorare al disco di debutto, The Doobie Brothers. Prodotto dallo stesso Templeman con il collega produttore Lenny Waronker, l’album d’esordio della band esce alla fine di aprile nel 1971, in un mix di approcci sonici che unisce la forza sprigionata dal vivo e uno stile più pulito e acustico, principalmente spinto da Waronker.
Aperto dal fingerpicking acustico di “Nobody”, The Doobie Brothers mette subito le cose in chiaro, lasciando parlare le avvolgenti armonie vocali su un country-rock di alta scuola. Il primo squarcio elettrico di quello che viene scelto come singolo apripista è breve ma elegante, seguito a ruota dall’irresistibile western–blues “Slippery St. Paul”. La prima parte del disco scivola sinuosa sull’armonica da palude di “Greenwood Creek”, seguita dal colorato upbeat “It Won’t Be Right” e dalla malinconia country-folk di “Travelin’ Man”. Il disco riflette una gentile morbidezza in arrangiamenti puliti e atmosferici, a evocare il tipico paesaggio americano sul tramonto di una giornata soleggiata. Quel cielo terso e brillante dipinto nella funkeggiante “Feelin’ Down Farther”, che velocizza i tempi con il brillante assolo di Johnston.
L’inizio della seconda parte dell’album marca una maggiore verve elettrica, dall’armonia pop di “The Master” al ritmo honky-tonk di “Growin’ A Little Each Day”. Con un approccio tipicamente southern-rock, “Beehive State” pigia sull’acceleratore per omaggiare il tema di Randy Newman, mentre la “Closer Every Day” a firma Pat Simmons brilla in chiave folk medievale, affascinante e intensa ballad, sicuramente tra le cose migliori in un disco forse ancora acerbo, ma che mostra tutte le potenzialità di un gruppo in rampa di lancio.
Il singolo “Nobody” non riesce a scalare le classifiche americane, anche se entra nella cosiddetta Bubbling Under List – la classifica secondaria che elenca i brani con il miglior potenziale – in posizione 122 sulla rivista Billboard. Non è l’unica cattiva notizia per i Doobie Brothers, perché Tom Johnston è vittima del famigerato sorteggio che lo obbliga a partire per il Vietnam. La Warner Bros gli mette a disposizione un avvocato di Los Angeles per evitare l’arruolamento, ma il tentativo è inutile. Johnston riesce a salvarsi in calcio d’angolo quando un dottore dell’esercito lo reputa inadatto a utilizzare armi da fuoco a causa di problematiche nervose alle mani. Per un’assurda ironia della sorte, Tom non avrà mai più problemi di questo tipo, probabilmente provocati solo temporaneamente dall’estensivo uso della chitarra.
Il gruppo può così tornare in pista, accolto trionfalmente dai primi fan allo Chateau Liberté, principalmente biker in giacca di pelle e grossi occhiali da sole. Pubblicato il debut album, la Warner Bros lancia i Doobie Brothers in un primo tour americano con i Mother Earth, blues-band formata nel 1967 in California dalla cantante Tracy Nelson.
Le vendite di The Doobie Brothers non decollano, fermandosi a circa diecimila copie, ma Pat e Tom non sono affatto scoraggiati, leggendo le critiche positive su riviste di settore come Rolling Stone che parlano di un “potente rock-pop, vivace e bruciante, possente ma anche melodico”. Durante un concerto al Bimbo’s 365 Club, a San Francisco, il batterista John Hartman invita il collega Michael Hossack a suonare in jam con il gruppo, portando i Doobie Brothers a considerare l’introduzione di un secondo drummer sulla scia di gruppi come Grateful Dead e Allman Brothers Band. Il grande cambiamento nella line-up vede poi l’addio del bassista Dave Shogren, mai integratosi completamente, sostituito con Tiran Porter, già negli Scratch, tra i primi gruppi di Patrick Simmons.
La nuova formazione è approvata da Templeman, che nel frattempo non è affatto contento del tempo perso dalla band in studio, che ha portato a perdite per decine di migliaia di dollari. L’etichetta, visto lo scarso successo del primo disco, pensa di sospendere il contratto, ma il nuovo materiale in formato demo registrato durante il tour con i Mother Earth convince Templeman. Le nuove sessioni in studio si svolgono tra North Hollywood e i Wally Heider a San Francisco, con la band pronta a lavorare sui brani concepiti soprattutto a New Orleans, nel cuore del quartiere francese. Da qui il titolo di quello che sarà il secondo disco dei Doobies, Toulouse Street.
Ascolta la musica
Pubblicato nell’estate del 1972, Toulouse Street è il primo album del gruppo a scalare la classifica di Billboard, arrivando in posizione 21 con l’uscita di due singoli tra luglio e novembre. Il primo centra subito il bersaglio grosso, in heavy-rotation sulle frequenze radio americane con il suo stile chitarristico rilassato e spensierato. Concepita come canzone su un’utopia di pace globale, “Listen To The Music” è una feel-good hit, quintessenza del Doobie-sound tra rock armonico e Adult-contemporary. Rispetto al disco d’esordio, Toulouse Street espande i confini del country-rock in stile The Eagles, aggiungendo nuovi tasselli sonici come il boogie-rock stradaiolo “Rockin’ Down The Highway”, sui sentieri battuti da band come i Creedence Clearwater Revival.
Il lavoro in fase di produzione di Templeman cavalca l’animo più southern-rock dei Doobie Brothers, che riescono però ad integrare in maniera coerente i generi più diversi, dall’incalzante ritmo caraibico di “Mamaloi” alla fusione tra gospel, blues e rock hendrixiano in “Jesus Is Just Alright” (Arthur Reid Reynolds). L’intero disco è come una pietra brillante, solido e affascinante allo stesso tempo, incastonato nella tenera ballad che gli dà il titolo, grande prova in fingerpicking di Simmons. La band scivola con scioltezza dallo swamp-rock venato di R&B in “Cotton Mouth” al delta-blues di “Don’t Start Me Talkin’”, cover di Sonny Boy Williamson II. Anticipati dall’intermezzo folk “White Sun”, i quasi sette minuti di “Disciple” lanciano i Doobies nel blues elettrico più vicino agli Allman Brothers, con una piccola maratona tra chitarre incrociate e doppia batteria, a testimoniare un vero battesimo del fuoco in un album iconico agli inizi dei Seventies a stelle e strisce.
Trascinati dai passaggi in radio del singolo “Listen To The Music”, i Doobie Brothers partono in tour a supporto dei T. Rex di Marc Bolan, in ascesa supersonica dopo l’uscita del capolavoro “Electric Warrior”. È una scelta per certi versi clamorosa, quella della Warner, che decide di accoppiare una band di taglio tipicamente americano all’estroso frontman inglese, diventato capostipite del movimento glitter-glam. Il tour si rivela però un’esperienza preziosa per i Doobies, che scoprono da Bolan l’importanza del concetto di show per il pubblico. La band corre a fare acquisti al noto negozio di abbigliamento Jumpin’ Jack Flash, sulla Fifty-Ninth Street a New York, per rifarsi il look e cavalcare anche nell’outfit l’essenza del rock’n’roll. Accompagnando l’aura magica di Bolan, il gruppo ha la possibilità di esibirsi in prestigiose location ai quattro angoli degli States, dalla Warehouse a New Orleans all’Auditorium Theatre di Chicago. Su suggerimento del batterista John Hartman, la band decide di incorporare effetti di fumo ed esplosioni nel corso dei concerti, ormai convinta ad abbandonare l’approccio iniziale da musicisti hippie per trasformarsi in stelle internazionali.
Aleggia così la certezza di poter dimostrare che “Listen To The Music” non è stata una one hit wonder, che i Doobie Brothers possono entrare nella storia della musica. Registrato negli studi Warner dalla metà del 1972, The Captain And Me è il disco che sancisce il definitivo successo della band, arrivando al settimo posto nella classifica di Billboard e conquistando il doppio disco di platino grazie ad oltre 2 milioni di copie vendute. La genesi del terzo album è in alcune idee portate dal produttore Ted Templeman per rimodellare i nastri demo presentati dalla band, a partire da una canzone intitolata “South City Midnight Lady”, un mix di country e ritmi jazz dalla penna di Patrick Simmons. Il produttore suggerisce di introdurre una parte d’archi, affidando il compito all’arrangiatore e conduttore d’orchestra Nick DeCaro, invitando poi il chitarrista Jeff Baxter – in procinto di fondare gli Steely Dan – alla pedal steel. Il risultato è un instant-classic del country-rock americano, una ballad ad altissimo impatto emotivo che si inserisce sulla stessa scia del successo planetario conquistato dagli Eagles.
Ispirati dall’ultimo disco di Stevie Wonder, “Talking Book”, i Doobie Brothers decidono di introdurre una nuova variante nel loro mix sonico, affidando alla coppia Malcolm Cecil e Robert Margouleff il lavoro ai sintetizzatori. In brani come l’iniziale “Natural Thing”, che mette la più dolce armonia al servizio di un beat in midtempo, l’utilizzo del sintetizzatore stravolge il classico sound della band con un tono che sembra uscito da un corno romano.
Su altre pressioni del produttore Ted Templeman, una jam strumentale dal titolo “Osborn” viene trasformata in una driving-song sui treni in corsa, aperta da un riff arioso e condotta dalla voce soul di Johnston prima dell’indimenticabile assolo di armonica. “Long Train Runnin’” è la prima vera hit del gruppo, di quei brani che riescono a fondersi immediatamente con l’identità di una band.
Tra southern-rock e boogie, la veloce e potente “China Grove” mette in bella mostra il lato più duro dei Doobies, mentre la più riflessiva “Dark Eyed Cajun Woman” solca i sentieri più puri del blues in un approccio chitarristico che rende omaggio a B.B. King. Il disco è un perfetto bilanciamento tra la verve di Johnston e le romantiche melodie da folletto folk di Simmons, che sfoggia una masterclass di fingerpicking in “Clear As The Driven Snow”. Mentre la roboante “Without You” è un incendiario omaggio agli Who, tra i gruppi preferiti del batterista John Hartman, “Ukiah” vira verso un country-rock macchiato con un’affascinante dose di jazz e sintetizzatori. “Evil Woman” ha il ritmo pachidermico e oscuro dell’hard-rock più raffinato, di quelli destinati a durare nel tempo.
La complessa bellezza dell’album è racchiusa tutta nella sua title track, avviata dal fingerpicking di Simmons nello stile armonico di Crosby, Stills & Nash, arricchita dal banjo sonnolento nella parte centrale su un ritmo più rock, terminata dalla sezione ritmica su percussioni latine. The Captain And Me è il capolavoro dei Doobie Brothers, che lancia la band sui binari verso la definitiva consacrazione.
Non puoi fermarlo
Trascinati dal successo di The Captain And Me, i Doobie Brothers ottengono un aereo, un vecchio Martin 404 soprannominato Doobie Liner, per spostarsi velocemente durante il tour del 1973 che li vede headliner. Pur mantenendo un approccio umile, il gruppo si ritrova improvvisamente avvolto dalla notorietà, ma soprattutto dal flusso sgorgante di denaro proveniente da centinaia di concerti all’anno. La popolarità aumenta grazie a diverse apparizioni live in eventi speciali, come il Don Kirshner’s Rock Concert al Madison Square Garden o i passaggi televisivi ai fortunati format In Concert e Midnight Special. Il gruppo si esibisce in tutto il Nord America, suonando insieme a nomi di prestigio come Frank Zappa, Chicago e Beach Boys. Ai lunghi concerti si alternano nuove sessioni di registrazione negli studi della Warner Bros, le ultime apparizioni con la band del secondo batterista Michael Hossack, che alla fine dell’anno lascia per entrare nei Bonaroo. Viene ingaggiato al suo posto Keith Knudsen, vecchia conoscenza del gruppo, che si libera dei suoi impegni professionali con il polistrumentista e cantante Lee Michaels.
Ai lavori per il successivo What Were Once Vices Are Now Habits, in uscita nel febbraio 1974, si aggiunge la sezione fiati dei Memphis Horns e il ritorno al piano di Bill Payne dai Little Feat. Viene anche invitato un altro pianista da New Orleans, James Booker, con Jeff “Skunk” Baxter nuovamente alla pedal steel dagli Steely Dan. Ai Doobies piace allargare la famiglia musicale, evitando egoismi personali e pretese da rockstar, affidando ancora a Templeman una cruciale funzione di musicista aggiunto. Il processo compositivo è così simile a quello che ha portato a The Captain And Me, ovvero basato su idee portate sul tavolo da Johnston e Simmons per essere poi rifinite e riarrangiate in maniera collettiva.
Tra le prime tracce a essere registrate, “Another Park, Another Sunday” è tra gli esempi più lampanti della grande alchimia raggiunta all’interno del gruppo, tra le chitarre suonate tramite uno speaker Leslie e le armonie agrodolci da ballad pastorale. Il brano viene scelto come primo singolo a trascinare le vendite del disco, con risultati non eccezionali come “Long Train Runnin’”, ma ancorato in posizione 32 nella Billboard Hot 100. Da un primo riff funkeggiante di Johnston nasce “Eyes Of Silver”, che introduce nel lotto elementi sonici in stile Stax Records, grazie alla miccia scatenata dalla sezione fiati dei Memphis Horns suggeriti da Templeman.
La prima parte dell’album è un’ode all’energia, dall’iniziale “Song To See You Through”, in uno stile a metà tra Otis Redding e Al Jackson, alla hendrixiana “Road Angel”, strutturata tra il riff distorto e il ritmo di conga. Se “Spirit” vira a sorpresa verso uno scanzonato country-western acustico in salsa hillbilly, “Pursuit On 53rd St.” riprende la lezione da Abc del rock di John Fogerty. Primo singolo ad arrivare al numero uno in classifica, “Black Water” è una solare ballad acustica impreziosita dall’autoharp suonata da Arlo Guthrie, altra prova brillante della chitarra di Simmons che guida sul finale le armonie vocali a cappella.
Il gruppo cambia registro nella seconda parte dell’album, dal mix tra funk e R&B di “You Just Can’t Stop It” alle atmosfere esotiche nella sinuosa “Tell Me What You Want (And I’ll Give You What You Need)”, a ritmo di tabla e pedal steel. L’anima blues dei Doobies emerge con violenza sull’irresistibile shuffle “Down In The Track”, mentre in “Daughters Of The Sea” brilla una lancinante chitarra elettrica a lanciare un ritmo tra lo psichedelico e il latin-jazz. La chiusura è affidata al bassista Tiran Porter, che firma il breve strumentale in chiave space-rock “Flying Cloud”, a mettere l’ultimo tassello sonico in un altro grande mosaico musicale dei Doobie Brothers.
Dopo l’uscita di What Were Once Vices Are Now Habits i Doobie Brothers decidono di far entrare stabilmente nel gruppo il chitarrista degli Steely Dan Jeff “Skunk” Baxter, che decide di unirsi ai Doobies dopo la decisione del suo gruppo di ritirarsi dalla scena live, mentre i promoter della Warner hanno già organizzato un grande tour che parte negli Stati Uniti e sbarca per la prima volta anche in Europa. La band si esibisce davanti a 60mila persone al festival inglese di Knebworth, insieme a nomi come Allman Brothers Band e Van Morrison. Sull’onda del successo nel Vecchio Continente, la Warner decide di bissare nell’inverno del 1975, portando il gruppo a suonare insieme ad artisti di casa come Little Feat, Tower of Power, Montrose e Graham Central Station.
Ritornati a casa, i Doobie Brothers salgono sul palco dello Snack Concert a San Francisco, organizzato dal noto promoter Bill Graham al Kezar Stadium, per raccogliere fondi a favore della scuola pubblica in difficoltà dopo gli ultimi tagli voluti dal governo. Poco dopo, nel mese di aprile, esce il quinto album Stampede, registrato tra la California e Nashville in poco meno di un mese nell’autunno precedente. È il primo disco che vede il nuovo membro Jeff Baxter contribuire in maniera più diretta al sound della band, che abbandona parzialmente le armonie pop per abbracciare un approccio roots-rock. L’album è incentrato sul singolo “Take Me In Your Arms (Rock Me A Little While)”, vecchio pallino di Tom Johnston che da anni vuole incidere il classico Motown degli anni 60 firmato dalla triade Holland-Dozier-Holland. Per la registrazione della cover viene chiamato Paul Riser, arrangiatore d’archi, insieme alle vocalist Sherlie Matthews e Venetta Fields, già al lavoro su un celebre disco dei Rolling Stones, “Exile On Main St.”.
Aperto dal ritmo funky-soul e intarsiato dagli archi, il brano si rivela un altro successo, arrivando in undicesima posizione nella classifica di Billboard. L’altro singolo scelto per trascinare il disco è l’iniziale “Sweet Maxine”, un boogie-rock bolaniano condotto dal piano in stile Little Feat di Bill Payne, mentre la successiva “Neal’s Fandango” richiama le prime influenze dei Moby Grape con grandi piroette strumentali da parte del nuovo Jeff Baxter alla pedal steel. “Texas Lullaby” torna al formato country-ballad con un tocco di R&B nella voce calda di Johnston, che firma il raffinato soul-rock “Music Man” con il contributo dello special guest Curtis Mayfield alle partiture dei fiati.
L’album è avvolgente come una coperta appena trattata con l’ammorbidente, pregevole opera corale di una band sempre aperta a contaminazioni e influenze esterne. Al di là di quelli che sono ormai dei marchi di fabbrica – il fingerpicking delicato di Simmons nel breve intermezzo acustico “Slack Key Soquel Rag” – brani come “I Cheat The Hangman” si infilano direttamente nella lista dei capolavori di armonia collettiva, dall’inizio ipnotico ed etereo al crescendo di archi pastorali e trombe jazz sull’incedere apocalittico della batteria. Sul ritmo acustico in chiave blues di “Rainy Day Crossroad Blues”, con la pregevole chitarra slide di Ry Cooder, l’album tocca praticamente ogni angolo della tradizione americana, rotolando verso il Sud sul sentiero dei Creedence Clearwater Revival in “I Been Workin’ On You”.
Il finale sulla sarabanda southern di “Double Dealin’ Four Flusher” chiude con aggressiva convinzione un lavoro riuscito, finora il più fedele alle tradizioni soniche americane nella discografia dei Doobie Brothers.
Yacht rock
E’ il 9 aprile 1975. All’Assembly Center di Baton Rouge, in Louisiana, è in programma il nuovo concerto dei Doobie Brothers, tra le prime tappe del tour americano a supporto dell’album Stampede. Poche ore prima di salire sul palco, il road manager dei Doobies corre nei camerini per avvisare Pat Simmons: Tom Johnston è stato trasferito d’urgenza a Los Angeles, ricoverato per l’aggravarsi di una brutta forma di ulcera. Affetto fin da adolescente da problemi allo stomaco, Tom ha iniziato all’improvviso a perdere sangue, ormai devastato da lunghi tour e abitudini alimentari oltre i limiti della sregolatezza. La notizia affossa Simmons, non tanto per il concerto di Baton Rouge, piuttosto per il futuro stesso della band senza il suo frontman. Sul palco dell’Assembly Center, Pat spiega chiaramente al pubblico che Tom non sarà presente, chiedendo a tutti il permesso di suonare anche senza la voce indistinguibile dei Doobie Brothers. Il concerto si rivela comunque un successo, ma la band è scossa, impaurita dalla possibilità concreta di fermarsi sul più bello.
Il tour prosegue con Simmons a coprire il buco creato da Tom, sempre rispettando i fan a cui viene offerta l’eventualità di un rimborso del biglietto, ma si tratta di una soluzione temporanea che non può andare certo avanti. Tra una data e l’altra, Jeff Baxter parla con Pat, suggerendogli di valutare un giovane cantante che ha già militato con lui negli Steely Dan. “È bravo – dice Baxter a Simmons – Chiaro, è ancora giovane, tipo ventidue anni, ma è molto bravo. Suona anche le tastiere, chissà…”.
Qualche giorno dopo, un ragazzo scapigliato si presenta nella hall dell’albergo dove dorme il gruppo, presentato da Baxter: “Pat, ti presento Michael McDonald”. Nato a St. Louis nel febbraio 1952, Michael H. McDonald ha militato fin da giovanissimo in diversi gruppi nell’area di Ferguson, scoperto appena diciottenne in un night-club dal produttore della Rca Rick Jarrard, che gli ha subito offerto un contratto discografico portandolo a Los Angeles. Dotato di una voce dalle tonalità marcatamente gospel e soul, McDonald è entrato negli Steely Dan durante il loro tour del 1973, principalmente perché in grado di “cantare come una ragazza”. Simmons è perfettamente consapevole che il modo di cantare di Mike è meno sporco di quello di Johnston, ma decide di provare il ragazzo in quanto rimpiazzo solo temporaneo di Tom. Nemmeno McDonald sembra così convinto, intimorito dalla reazione dei fan e dal vasto repertorio dei Doobie Brothers da mandare giù in appena un paio di giorni, ma quando sale sul palco per la prima volta a Shreveport, le cose sembrano funzionare alla grande, come in un innesto naturale in un ingranaggio già perfetto.
Tornati in California dopo il tour di Stampede, i Doobie Brothers hanno già prenotato gli studi Warner per iniziare a lavorare al nuovo album, a partire da diverse canzoni inedite firmate da Pat Simmons. Il gruppo ancora non conosce bene le condizioni di salute di Tom Johnston, che però autorizza Pat a far entrare Mike McDonald anche in studio. Il primo brano che viene registrato per Takin’ It To The Streets è“Wheels Of Fortune”, aperto dal nuovo riff arioso in uptempo, incorporando sinuosi movimenti jazzy sulla falsariga degli Steely Dan. Molto simile alla “Spinning Wheel” già registrata dai Blood, Sweat & Tears nel 1968, il singolo lavora sull’accoppiata basso e tastiere suonate proprio da McDonald, il cui esordio nel gruppo segna un punto di rottura rispetto al ciclo di Johnston. Lo stesso Ted Templeman non sembra convinto, all’inizio, delle capacità di Mike in termini di songwriting, ma il nuovo arrivato firma subito la canzone che offre il titolo all’intero disco, condotta dalla sua voce più orientata verso un pop-soul sensuale. Si vira così verso un blue-eyed-soul per i gusti degli ascoltatori americani, che infatti premiano il brano portandolo al tredicesimo posto in classifica.
Tra le conga suonate da Bobby LaKind e i fiati dei Memphis Horns, “Takin’ It To The Streets” ha un ritmo affascinante e ben confezionato, ovviamente lontano dal sound più grezzo e blues-oriented finora offerto dai Doobies. “8th Avenue Shuffle”, ad esempio, ricorda nella struttura “Black Water”, caratterizzata però da un nuovo ritmo soul-jazz metropolitano. Il secondo brano firmato da McDonald, “Losin’ End” è una docile marcia di jazz-pop condotta dal sintetizzatore, fortemente orientata verso un processo immediato di steelydanizzazione del gruppo. Stesso discorso per brani come “Rio”, sulle percussioni in salsa carioca, e “It Keeps You Runnin’”, un mix elegante di jazz, R&B e gospel.
Il disco suona forse come uno shock per gli appassionati del gruppo, che però dimostra di saper maneggiare alla perfezione gli stili musicali più disparati, dal soul di “For Someone Special” – contributo del bassista Tiran Porter – al funky di “Carry Me Away”. Magari ai vecchi fan calerà la lacrima ascoltando il ritmo boogie-blues di “Turn It Loose” – forse l’unico brano in stile Doobies, non a caso firmato da Johnston – ma Takin’ It To The Streets è un disco di rottura e rinnovamento, che lancia i Doobie Brothers verso il nuovo decennio.
Tu appartieni a me
In un momento di fortissima transizione, Tom Johnston recupera peso e forze dopo il ricovero, pronto a tornare sul palco nella primavera del 1976 per il tour di Takin’ It To The Streets. A seguire la band ci sono anche i Memphis Horns, ma il nuovo protagonista è sicuramente Mike McDonald, che ha ormai sostituito Tom non solo come leader del gruppo, ma anche come architetto principale di un nuovo sound. Johnston se ne rende conto, capisce di essere fuori posto, così annuncia al gruppo che lavorerà solo sporadicamente, deciso a concentrarsi sulla sua carriera da solista.
Mentre la Warner decide di capitalizzare il lavoro svolto dal gruppo nella compilation Best Of The Doobies, che venderà solo in America oltre dieci milioni di copie, Pat Simmons pensa alla nuova direzione intrapresa, ormai convinto che, senza Tom, i vecchi Doobie Brothers sono ormai morti e sepolti. Ecco allora che la marea fusion sommerge il successivo Livin’ On The Fault Line, a partire dalla title track, che si snoda in più parti strumentali tra conga, vibrafono e cori esotici. L’impianto jazz permette ai Doobies di sperimentare a manetta, offrendo sempre più spazio alla chitarra sofisticata di Baxter. L’altro brano portato in studio da Simmons è “Chinatown”, aperto dall’ariosa accoppiata chitarra e sintetizzatore per planare leggero su una smooth-fusion sullo stile degli ultimi lavori di Steely Dan e Little Feat. È una rottura ancora più forte di quella decisa su Takin’ It To The Streets, in un inevitabile ammorbidimento del sound di matrice afro-americana. La voce di taglio soft-pop di McDonald permea completamente la ballad “There’s A Light”, così come “You’re Made That Way”, sviluppata su un uptempo ai limiti di un funky da camera.
Il disco è sicuramente tra i meno orecchiabili mai confezionati dai Doobie Brothers, che sembrano così fregarsene di qualsiasi velleità commerciale per andare incontro a una continua sperimentazione. La distruzione del passato è così totale, a parte il breve ragtime acustico “Larry The Logger Two-Step” con l’assolo in fingerpicking di Simmons, puntando su una ricostruzione a base di soft-pop intellettuale (“Echoes Of Love”) e fusion-jazz (“Nothin’ But A Heartache”). Il gruppo attinge ancora una volta dalla penna del trio Holland-Dozier-Holland nell’R&B ammorbidito “Little Darling (I Need You)” e punta sulla collaborazione tra McDonald e Carly Simon nel blue-eyed-soul di “You Belong To Me”. L’album finisce però col perdere parte della freschezza del precedente, sicuramente ottimo in esecuzione e perizia tecnica, ma leggermente macchiato da qualche riempitivo.
Livin’ On The Fault Line non ha singoli che riescono a scavalcare la Top 40 di Billboard, pur potendo contare sul brano “You Belong To Me” portato al successo da Carly Simon. Il management della band propone allora una comparsata nel gennaio 1978 durante il popolare show tv What’s Happening!!, nonostante le riserve di alcuni membri che lo reputano una caricatura delle persone afroamericane scritta da sceneggiatori bianchi. Durante le riprese, è Pat a notare i comportamenti sempre più bislacchi del chitarrista Jeff Baxter, passato dalla marijuana a droghe più pesanti come la cocaina.
Con evidenti perplessità sul chitarrista, per la prima volta senza alcun intervento da parte dell’ormai ex-Tommy Johnston, i Doobie Brothers tornano in studio a North Hollywood per registrare il nuovo disco Minute By Minute, in uscita a dicembre. L’album ottiene un successo commerciale clamoroso, arrivando al primo posto nelle classifiche nordamericane per un totale di oltre tre milioni di copie vendute. Il nuovo singolo firmato da McDonald con Kenny Loggins è intitolato “What A Fool Believes”, creato a partire da una base funkeggiante su cui viene costruita una melodia ariosa di sintetizzatore. L’approccio easygoing si accoppia con la voce calda di McDonald, partorendo una hit da classifica che fa impazzire i vertici della Warner, dopo i dubbi espressi da Ted Templeman. Ascoltando brani come “Here To Love You”, uno shuffle rallentato in stile Motown, l’ascoltatore fatica a credere che si tratti dello stesso gruppo di hippie che ha incendiato i palchi americani agli inizi degli anni 70. Il vecchio boogie-beat viene aggiornato in chiave soft-pop sulla latineggiante “Dependin’ On You”, mentre le svisate southern rivivono in formato più commerciale in brani come “Don’t Stop To Watch The Wheels”.
Al di là del grande successo di pubblico, il disco si conferma suonato in maniera eccelsa, frutto di un gruppo di grandi talenti strumentali a cui McDonald ha fornito una marcia in più – o in meno, a seconda dei gusti – per allontanarsi dallo stereotipo della musica afroamericana e scalare le classifiche a stelle e strisce. “Here To Love You” mescola soul e funky in uno stile che si avvicina tremendamente a quello che verrà negli anni 80, mentre “Sweet Feelin’” scalda i cuori con il suo strimpellare nostalgico. Lo stesso Simmons firma la successiva “Steamer Lane Breakdown”, uno strumentale in chiave bluegrass che omaggia il sound più antico. Ma il nuovo corso è evidentemente in canzoni come “You Never Change”, che propongono un soft-rock intellettuale in grado di soddisfare sia i palati più esigenti che quelli da fugace ascolto in radio. Nati sotto l’egida dei Moby Grape, i Doobie Brothers dimostrano di aver imparato perfettamente la lezione, incorporando stili sempre diversi e riuscendo a confezionare un lavoro degno di un Grammy Award.
Il grande successo commerciale di Minute By Minute apre una nuova fase per i Doobie Brothers, specie dopo l’allontanamento di Jeff Baxter e del batterista John Hartman. Al posto dell’ex-Steely Dan viene scelto John McFee, già al lavoro con tantissimi artisti di punta come Van Morrison, Steve Miller ed Elvis Costello. Originario di Santa Cruz, McFee è un virtuoso della pedal steel, praticamente un profilo perfetto per talento ed esperienza. In formazione viene aggregato definitivamente anche il sassofonista Cornelius Bumpus, mentre il posto di Hartman viene preso da Chester Eugene McCracken, vecchia conoscenza di McDonald.
I Doobies non vogliono perdere tempo dopo il Grammy conquistato per l’ultimo album, così tornano in studio ai Sunset Sound Recorders di Hollywood per registrare il successivo One Step Closer. Aperto dal ritmo funky ballabile “Dedicate This Heart”, il disco viene concepito quasi in presa diretta, frutto della collaborazione tra tutti i membri del gruppo, vecchi e nuovi. In realtà, a parte l’uptempo soul “No Stoppin’ Us Now” e il groviglio fusion di “Just In Time”, l’album segna il progressivo abbandono di Pat Simmons alla guida della band, ora vicina più che mai a rappresentare un brand piuttosto che un progetto guidato da leader forti.
Se il singolo “Real Love”, un numero blue-eyed soul su sintetizzatori dal ritmo gommoso, scala ancora le classifiche di Billboard, One Step Closer è il primo lavoro dei Doobies a mancare di mordente, come una lezione improvvisamente noiosa dopo anni di massima attenzione. L’apertura democratica a tutti i membri porta una controindicazione quando l’eccessivamente lunga “Thank You Love” si trascina su ritmi latin-jazz guidati dal sassofonista Cornelius Bumpus. Il nuovo chitarrista McFee firma la spensierata title track, tra giravolte soul e soft-funk, mentre McDonald offre la sua solita voce calda all’esotica “Keep This Train A-Rollin”.
Lo strumentale “South Bay Strut” mette certamente in luce l’abilità della band, che sicuramente avrà nel sax un elemento in più per le esibizioni dal vivo. Ma, nel complesso, One Step Closer è un album ai limiti della noia, praticamente privo di grandi ispirazioni dopo quasi dieci anni di lavori sempre al top.
Addio e ritorno
Pubblicato One Step Closer agli inizi del 1980, i Doobie Brothers sostituiscono il partente Tiran Porter con il nuovo bassista Willie Weeks, tra i più apprezzati sessionmen degli Stati Uniti. Prima di partire in tour, Pat Simmons propone al resto del gruppo di acquistare una grande casa nella zona di Montara, con l’obiettivo di avere un posto unico dove provare e tenere tutta la strumentazione. Il management non è però d’accordo, vuole portare tutti a Los Angeles, provocando un forte disappunto nel chitarrista. Mentre è in ospedale per visitare la madre malata, McDonald riceve una telefonata da parte di Simmons, che non ha alcuna intenzione di trasformare i Doobie Brothers in una band losangelina. “Non è quello che ho creato, Mike – confessa Pat – credo che per me sia arrivato il momento di andarmene”. La notizia prende McDonald del tutto alla sprovvista, portandolo a riflettere sul futuro di una band che non può proprio andare avanti senza il suo ultimo fondatore.
Viene così pianificato un tour d’addio alle scene, un segno di ringraziamento nei confronti dei fan che hanno supportato i Doobies fin dagli esordi. Alcune esibizioni all’Universal Amphitheater di Los Angeles e al Greek Theatre di Berkeley vengono registrate da Templeman in vista di un album dal vivo, che vede il gradito ritorno di Tom Johnston e Tiran Porter. Farewell Tour esce come doppio disco nel giugno 1983, scontentando gli appassionati che si aspettavano un ritorno finale ai roventi fasti dei Doobies. Se l’intro preso da “Slippery St. Paul” sembra l’antipasto perfetto per la celebrazione della band, la versione di “Takin’ It To The Streets” mette subito il canto di McDonald in primo piano, seguito dal sax di Bumpus a cui viene affidato il compito di interpretare una versione edulcorata del gospel “Jesus Is Just Alright”. Vecchi classici come “Listen To The Music” subiscono un trattamento di sbiancamento del sound, salvati in “Black Water” dal fingerpicking d’altri tempi di Simmons.
Il disco presenta due inediti, il soft-rock “Can’t Let It Get Away” e il funky-soul “Olana”, ultimo brano scritto da McDonald. Ma i momenti più intensi di Farewell Tour restano le hit “Long Train Runnin’” e “China Grove”, cantate per l’occasione da Tom Johnston, per una celebrazione più fedele dell’intera storia dei Doobie Brothers.
Abbandonati i Doobies, Pat Simmons ottiene un contratto discografico da solista con la Elektra Records, portandosi dietro il fidatissimo Ted Templeman. Insieme al bassista Willie Weeks, Pat registra nuovi brani, ma rimane di sasso quando lo stesso Templeman smette di rispondergli al telefono, sparendo nel nulla. Al suo posto arriva il produttore John Ryan, già al lavoro con Santana, per iniziare nuovamente i lavori ai Sound City Studios di Los Angeles. Simmons scrive altre canzoni con l’amico Chris Thompson, pubblicando il disco “Arcade” nel 1983, con il singolo “So Wrong” a scalare la Top 40 negli Stati Uniti.
Il successivo addio alla Elektra Records da parte del presidente Joe Smith porta Simmons a interrompere futuri ragionamenti da solista, convinto che sia arrivato il momento di prendersi una pausa per se stesso a partire dal 1984. Sia Pat Simmons che Tom Johnston si esibiscono sporadicamente con diverse band della Bay Area, riunendosi in una breve serie di concerti che partono dalla base militare di Baton Rouge, sponsorizzati dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti alla metà del 1986. è il preludio al ritorno sul palco dei Doobie Brothers, che partono il 21 maggio 1987 dalla Sports Arena di San Diego per un mini-tour di reunion di 12 date. All’inizio è solo una mossa per beneficenza, per raccogliere denaro per i veterani della guerra in Vietnam, ma la risposta del pubblico è straripante, tanto che la successiva data all’Hollywood Bowl fa registrare il più veloce tutto esaurito dai tempi dei Beatles. Il calore entusiasmante degli spettatori americani fa quasi commuovere Tom e Pat, che decidono così di rimettere in piedi la band nella sua incarnazione primigenia. Il tour arriva al suo apice al Peace Concert di Mosca, un mega-evento organizzato per celebrare l’apertura storica della Russia nota come Glasnost, in compagnia di artisti come Bonnie Raitt, James Taylor e Santana.
Il grande successo del tour di reunion porta i Doobies a tornare in studio, a The Plant di Sausalito, con una squadra di nuovi produttori e soprattutto una nuova etichetta discografica, la Capitol Records. In formazione non c’è più Mike McDonald, con Tom Johnston tornato in cabina di comando insieme ai vecchi batteristi John Hartman e Michael Hossack.
Uscito nel maggio 1989, Cycles soddisfa i fan della prima ora, a partire dal singolo boogie-blues “The Doctor”, che arriva al primo posto della classifica di Billboard. L’entusiasmo è presto smorzato dal tono più generale del disco, che al di là dell’effetto nostalgia tradisce una certa pochezza di idee. Dopo aver stravolto con intelligenza il sound con l’ingresso di McDonald, i Doobie Brothers confermano di avere sicuramente dimestichezza con i vecchi arrangiamenti, ma il lavoro è come coperto da un sottile strato di polvere accumulata nel tempo. Brani funkeggianti come “South Of The Border” e “Wrong Number” sono portati da un Johnston probabilmente appesantito dall’età, mentre il ritmo tropicale sintetizzato di “I Can Read Your Mind” dimostra come Pat Simmons abbia perso colpi in fase di songwriting, aiutato dall’amico Chris Thompson.
“Tonight I’m Coming Through (The Border)” è l’ultimo lascito di McDonald tra fiati soft-jazz e melodia pop. I Doobies decidono di registrare una cover di “One Chain Don’t Make No Prison”, pubblicata nel 1974 dai Four Tops, ma il risultato è decisamente plasticoso nel suo groove soul. “Take Me To The Highway” è una ballad inspida, mentre il sinuoso approccio blue-eyed in “Time Is Here And Gone” è ai limiti dell’elementare. Meglio il ritmo oscuro country-western di “Too High A Price”, ma è decisamente troppo poco per celebrare con entusiasmo il ritorno su disco del gruppo.
FratellanzaIncoraggiati dal buon successo commerciale di Cycles, i Doobie Brothers tornano sulla strada a tempo pieno, viaggiando in tour tra Stati Uniti e Giappone. Nella primavera del 1990 iniziano a lavorare al nuovo materiale in studio, supportati dal songwriter Jerry Williams che ha già all’attivo diverse collaborazioni, l’ultima con Eric Clapton sul suo disco “Journeyman”. L’idea di Pat e Tom è di spingere sul ritorno al passato musicale, facendosi addirittura ricrescere i capelli e tornare così all’estetica da biker in giacca di pelle che ha sancito la nascita del gruppo.
La rinnovata comunione d’intenti tracolla però sul successivo Brotherhood, probabilmente anche a causa del mancato supporto della Capitol Records in fase di promozione. Il disco si rivela un fiasco commerciale, ovviamente penalizzato da una tracklist che non muove un solo dito per attirare nuovi fan, limitandosi a scimmiottare il tempo che fu. Brani come “Divided Highway” e soprattutto “This Train I’m On” sono vuoti tentativi di replicare il formato southern-boogie del passato, probabilmente buoni per i fan che auspicavano il ritorno all’era pre-McDonald.
Le aspettative della Capitol puntano tutto sulla ballata romantica “Our Love”, che fallisce fragorosamente la prova delle classifiche, mentre le radio preferiscono la bluesy “Dangerous”, con il suo riff da stadio in stile ZZ Top. Il problema sta in un approccio fin troppo derivativo, come ad esempio in “Under The Spell”, che ricorda il sound dei Journey, o in “Is Love Enough”, che praticamente include la linea centrale di “Superstition” di Stevie Wonder. In “Something You Said” ed “Excited” c’è il medesimo sound portato su “Journeyman” da Williams, a dimostrazione che i Doobies si stanno limitando senza particolari idee a ripresentare un canovaccio ormai scaduto.
Il fiasco commerciale di Brotherhood porta la Capitol a stracciare il contratto con la band, negandole la possibilità di registrare un terzo album. Il bassista Tiran Porter è stufo dei continui concerti e lascia i Doobies, insieme al batterista John Hartman e Bobby LaKind, malato di cancro. L’ennesima ristrutturazione vede il nuovo bassista John Cowan con il ritorno di Keith Knudsen e John McFee nella famiglia. Il tour di Brotherhood è però un disastro, tra i meno profittevoli del 1991 secondo la North American Concert Promoters Association.
Nell’ottobre 1992 il gruppo si esibisce al Concord Pavilion di Concord, in California, per un concerto benefico a favore della famiglia dell’ormai ex-membro Bobby LaKind, in fin di vita a causa del cancro. Nell’anno successivo viene organizzato un breve tour in Giappone, seguito da altri concerti in America con McDonald nel 1995.
Per raccogliere fondi a beneficio della Wildlife Conservation Society, il Rockin’ Down The Highway: The Wildlife Concert viene organizzato nel maggio 1996 a New York, registrato in presa diretta per l’uscita del nuovo (e omonimo) album dal vivo. Il disco è particolarmente apprezzato dai fan, perché rappresenta la prima occasione di ascoltare in contemporanea le tre voci principali dei Doobies, visto il ritorno di Mike McDonald per l’evento. Dall’intro blues acustica della nuova “Dangerous” all’evergreen “Listen To The Music”, il doppio live album ha un peso a somma zero nella storia dei Doobies, sicuramente ottimo per i fan ma allo stesso tempo non un tassello fondamentale per far scoprire il gruppo alle nuove generazioni.
Ci si concentra così su vecchi classici come “Jesus Is Just Alright”, “Black Water” e “China Grove”, eseguite senza le incursioni fusion o soft-rock degli anni con McDonald. Si torna al gusto della chitarra elettrica, dall’agrodolce “Takin’ It To The Streets” al riff southern di “The Doctor”. L’album scorre comunque piacevole, avvicinandosi davvero ai Doobie Brothers che furono, anche se privo di quel mordente incendiario che sembra ormai svanito per sempre.
Alla metà del 1996, la formazione subisce l’ennesimo scossone, con l’introduzione del tastierista Guy Allison (Moody Blues e Air Supply) e del sassofonista Marc Russo (Yellowjackets). Tre anni dopo il gruppo entra in una guerra legale contro gli ex-membri McCracken, Bumpus e Shogren, ottenendo un’ingiunzione del tribunale per vietare loro l’utilizzo del nome Doobie Brothers in una tribute band.
A cavallo del nuovo millennio, i Doobies tornano in studio per registrare il primo album dai tempi di Brotherhood, con il produttore Guy Allison e il ritorno di John McFee alla chitarra. Sibling Rivalry esce nell’ottobre 2000 per la Rhino Records, nuova etichetta del gruppo dopo l’abbandono della Capitol a causa degli scarsi risultati commerciali. L’apertura del disco è affidata allo schitarrare spensierato di “People Gotta Love Again”, un finalmente gradito ritorno all’estetica denim della band. Simmons sfodera il suo tipico fingerpicking nell’uptempo country “Leave My Heartache Behind”, mentre brani come “Ordinary Man” e “Angel Of Madness” soffrono dello stesso plasticoso romanticismo presente nell’ultimo album.
In un lavoro insolitamente lungo, “Jericho” vira verso un funky-soul minimale, seguito dal riff blues più aggressivo di “45th Floor”. È Tom Johnston a comandare in fase di songwriting, dal gospel-rock “Higher Ground” a “Rocking Horse”, in cui si torna a mescolare atmosfere pop con il boogie. I Doobies non mollano il soft-rock dal gusto fusion dell’era McDonald, in brani come “Don’t Be Afraid” che però suonano completamente fuori posto in assenza della voce profonda di Mike. Sibling Rivalry contiene comunque qualche episodio degno di nota, piacevole all’ascolto, ma è probabilmente ancora troppo poco per parlare di un effettivo rinnovamento o addirittura rinascita della band americana.
Fine corsa?
Sibling Rivalry non scalda le classifiche americane, affossato dai nuovi gusti degli ascoltatori ormai lontani dall’Adult-oriented. Il 22 giugno 2001, prima di un concerto al Caesars Tahoe di Lake Tahoe, il batterista Mike Hossack è vittima di un bruttissimo incidente stradale sulla Highway 88, subendo diverse fratture che lo obbligano all’intervento chirurgico. Viene sostituito temporaneamente da M. B. Gordy prima di rientrare alla metà del 2002. Gordy resta comunque nel gruppo come percussionista, mentre entra il sassofonista Ed Wynne per il tour estivo.
Nel 2004 esce il disco Live At Wolf Trap, registrato a luglio al Wolf Trap National Park, in Virginia, ultima apparizione del batterista e cantante Keith Knudsen prima della sua morte a causa di una grave forma di polmonite. Aperto dal rombo dei motori, l’album parte a razzo con l’anthem “Rockin’ Down The Highway”, seguito da una emozionante versione del classico “Another Park, Another Sunday”. Dal bluegrass strumentale “Steamer Lane” alla brillante “South City Midnight Lady”, i Doobie dimostrano di essere in piena forma, con Simmons scatenato al banjo di “Rainy Day Crossroad Blues” e poi all’acustica folk in una versione molto fedele della gemma “Clear As The Driven Snow”.
È chiaramente un set che affascina gli ascoltatori più nostalgici, ma il concerto restituisce splendore al marchio Doobie Brothers, che riscoprono il piacere della blues jam incendiaria in “Don’t Start Me Talkin’” e del cazzeggio rock’n’roll nella cover dello standard “Little Bitty Pretty One”. Il finale è ovviamente pirotecnico, dalla meraviglia country-folk “Black Water” alle distorsioni elettriche di “China Grove”.
Chiamato il batterista Ed Toth dai Vertical Horizon, i Doobie Brothers si imbarcano in un nuovo tour con i Chicago, mentre fervono i preparativi per un nuovo disco in studio, osservato con attenzione dagli addetti ai lavori per il ritorno in cabina di regia dello storico produttore Ted Templeman.
World Gone Crazy esce alla fine del 2010, nuovo frutto della rinnovata unione compositiva tra Tom Johnston e Pat Simmons. Dagli esuberanti ritmi tropicali di “A Brighter Day”, il disco sorprende con la sua freschezza, come se Templeman fosse riuscito a rivitalizzare il sound della band con il solo ritorno in cabina di produzione. “Chateau” è un onesto rock-blues, mentre la title track vira verso uno shuffle arioso, quasi liberatorio. Simmons firma la sua nuova ballad in “Far From Home”, con Tom a pestare sull’acceleratore nel southern-blues “Young Man’s Game”.
Probabilmente rodati dai lunghi tour insieme dopo la reunion, i Doobies sembrano perfettamente calati in una modernità nostalgica, riabbracciando anche la voce di McDonald nella jazzy “Don’t Say Goodbye”. Il ritmo barrelhouse di “My Baby” omaggia Bob Dylan, con “I Know We Won” a ospitare lo special guest Willie Nelson in un country-pop di buon impatto. Se “Law Dogs” sviscera un Delta-blues metropolitano, il romanticismo acustico in “Little Prayer” riesce nell’intento di far salire qualche brivido sulla pelle.
Globalmente, l’effetto nostalgia è prevalente, ma almeno World Gone Crazy è un disco che ha qualcosa da dire.
Nel 2012 la band partecipa al documentario biografico “Let the Music Play: The Story of the Doobie Brothers”, mentre fervono i preparativi per un nuovo disco, come da accordi con la Sony Music Nashville, branca country del colosso discografico. L’idea è particolare, ovvero registrare nuovamente diversi classici in compagnia di una folta schiera di musicisti del settore, dalla Zac Brown Band a Sara Evans. Nel 2014 esce così Southbound, che, appunto, rilegge il repertorio storico con un approccio country più moderno, dal banjo rilassato di “Black Water” allo splendore pop di “Listen To The Music”.
Tra un’apparizione al popolare show di Jimmy Fallon e un tour con gli amici Journey, i Doobie Brothers firmano un nuovo contratto con il manager Irving Azoff, confermando Ed Toth come unico batterista della band. Nel 2017 i concerti si susseguono ininterrotti, in compagnia di star come Eagles e Chicago, poi con Santana nel 2019 quando viene annunciato che ci sarà il ritorno di Mike McDonald per il tour del 50° anniversario.
Nel 2020 la pandemia da Covid-19 rallenta l’entrata dei Doobies nella Rock and Roll Hall of Fame, così come alcuni show in programma a Las Vegas. Il tour del 50° anniversario viene così posticipato al 2021, in partenza alla Iowa State Fair ad agosto, dopo l’allentamento delle restrizioni sugli eventi dal vivo.
Durante la pausa forzata a causa del virus vengono gettate le basi del nuovo album Liberté, prodotto da John Shanks (Bon Jovi) e pubblicato nell’ottobre 2021 dalla Island Records.
Aperto dal ritmo tex-mex di “Oh Mexico”, il disco segna il definitivo abbandono di qualsivoglia tentazione in termini di sofisticatezza del sound, lasciando andare libero e selvaggio un rock’n’roll diretto e senza fronzoli. Immancabili i numeri più pop come “Better Days”, ma il disco riesce nell’intento di modernizzare l’approccio dei Doobies grazie all’intervento di Shanks, che praticamente co-firma tutti i brani, dal southern-boogie “Don’t Ya Mess With Me” al ritmo da Appalachi in “Cannonball”.
Numeri come “Wherever We Go” provano a scrivere nuove hit, mentre altri (“The American Dream”) vogliono soltanto pesare il ruolo del gruppo dopo cinquant’anni di attività. Ascoltando la delicata gospel-ballad “Shine Your Light” o lo shuffle-blues “Easy” viene inevitabilmente da congratularsi con i Doobies, riusciti al di là di ogni pessimistica previsione a superare ogni ostacolo sul cammino.
Dopo l’uscita di Liberté, Johnston e Simmons apprendono la notizia della morte del vecchio compagno John Hartman, annunciando la ripresa del tour per celebrare i cinquant’anni di carriera. Nel 2023, al ritorno negli States dopo diverse date in Australia e Giappone, il gruppo fa sapere che Tom Johnston dovrà fermarsi per un’operazione chirurgica alla schiena, sostituito da Mike McDonald per il prosieguo del tour. I Doobie Brothers si uniscono agli Eagles per il loro The Long Goodbye Tour, in sostituzione degli Steely Dan a causa di problemi di salute importanti di Donald Fagen.
Tornato in forma, Tom Johnston raggiunge gli altri compagni sul palco, prima dell’uscita dell’ultimo album Walk This Road, ancora prodotto da Shanksper la Rhino Records.Il disco vede il ritorno in pianta stabile di McDonald, che firma la title track, un robusto rock-blues con l’inserimento della leggendaria voce di Mavis Staple. “Angels & Mercy” è la nuova trovata retrò di Pat Simmons, un uptempo country–western dal ritornello pop, mentre “Call Me” vira verso il soul a fiati dalla penna del ristabilito Tom Johnston.
Il disco è particolarmente spensierato, come pervaso dalla sola voglia di suonare insieme nella grande famiglia Doobie Brothers. “Learn To Let Go” torna al formato ballad con reminiscenze anni 80, seguita dalle atmosfere da on the road americano in “State Of Grace”. La produzione di Shanks è scintillante e restituisce linfa vitale alle sonorità dei Doobies, in brani come il classico rock-pop radiofonico di “Here To Stay” o il ritmo molleggiato in chiave latin-jazz di “The Kind That Lasts”.
Dalle chitarre jingle-jangle in “New Orleans” alle tastiere ipnotiche in “Speed Of Pain”, l’album centra il bersaglio, sfoderando addirittura un potenziale instant-classic nella bellezza seventies di “Lahaina”, con l’apparizione speciale delle percussioni di Mick Fleetwood. Un ritorno nello stile più sofisticato e coerente con la grande storia dei Doobies, mentre il treno corre ancora a piena potenza.