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Donne al pronto soccorso con botte e fratture. Il medico: «Quando nascondono la violenza, ma il sospetto è evidente, dico: “Oggi è uno schiaffo, domani una caduta. Dopodomani non vorrei trovare la sua foto fra le notizie di cronaca”»

Questo articolo è pubblicato sul numero 48 di Vanity Fair in edicola fino al 25 novembre 2025.

«Quando Ada è arrivata in pronto soccorso era al settimo mese di gravidanza. Aveva un trauma mandibolare importante, al punto che si è dovuto intervenire chirurgicamente. Era scossa e molto spaventata. Durante il triage, aveva raccontato di aver sbattuto il volto sul pavimento a causa di una caduta. Con le mani – anziché cercare istintivamente di coprire la faccia – aveva abbracciato il grembo per proteggere il suo bambino. Ma quella caduta non era stata accidentale: il compagno, padre del bambino che aspettava, l’aveva colpita violentemente, facendole perdere l’equilibrio».

Ada è un nome di fantasia, ma la vicenda è reale. È uno dei casi che si è trovata ad affrontare Cristina Runzo, medico del pronto soccorso dell’Ospedale Mauriziano Umberto I di Torino e da anni all’interno dell’équipe antiviolenza. «Aveva una trentina d’anni, era originaria del Centro Italia. Nei pochi giorni in cui è rimasta ricoverata qui ci aveva raccontato di essersi trasferita a Torino per convivere con il compagno, l’uomo di cui si era innamorata». Un sogno d’amore che si era presto trasformato in un incubo: «Ricordo ancora il terrore che aveva negli occhi quando è arrivata qui. Per fortuna lo ha denunciato».

Le donne che si presentano al Mauriziano dopo un’aggressione da parte del partner, del padre o di un altro familiare sono una ogni 400 pazienti circa e «considerato che abbiamo in media 150 ingressi al giorno, parliamo di un caso ogni due o tre giorni», precisa Runzo, aggiungendo che queste cifre si riferiscono solo a chi questa violenza la dichiara. «Esistono tante vittime nascoste, perché non tutte se la sentono di dire “Mi ha picchiata”, trovano più facile e sicuro rispondere “Sono caduta dalle scale” oppure “Ho sbattuto contro lo spigolo della porta”», prosegue Runzo. «Una volta, alle 3 del mattino è arrivata una signora sui 50 anni. Aveva delle contusioni, disse che era caduta dalla bicicletta. Ma io non conosco donne che a quell’ora se ne vanno in giro in bici e, soprattutto, con un’aria così spaventata come aveva lei. Il punto è capire da certi indicatori quando è il caso di insistere per farsi raccontare come stanno davvero le cose. Se scavi un po’, a volte cedono. Sono persone fragili, impaurite, si aprono se capiscono che si possono fidare. Nei casi in cui il sospetto è evidente, dico sempre: “Oggi è uno schiaffo, domani una caduta, dopodomani non vorrei ritrovare la sua foto sulle pagine di cronaca”».

Oltre all’équipe antiviolenza, impegnata a formare colleghi e personale sanitario, al Mauriziano c’è un preciso protocollo quando arrivano donne che hanno subito una violenza. «In attesa della visita o di una radiografia, le pazienti vengono spostate in un luogo dedicato e sicuro. Per evitare che possano essere individuate nel caso l’aggressore decidesse di raggiungerle, ma anche perché, mentre aspettano, potrebbero ripensarci e decidere di andar via. Se firmano il consenso, saranno anche prodotti repertamenti fotografici da unire alla diagnosi con l’entità del danno».


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