documentario sul rapporto tra Toni D’Angelo e suo padre
Spiace disturbare, entrare da guardoni e osservare questo canto per immagini tra figlio e padre, tra Toni e Nino. Qualcosa di così educatamente e delicatamente universale che fa commuovere. Nino. 18 giorni – Fuori Concorso a Venezia 2025 – è di quei documentari intimi, ombelicali, privatissimi, come se si aprisse un cassetto della camera da letto e lo si rovistasse da cima a fondo. I 18 giorni sono, tra l’altro, la misura di una distanza temporale, quella intercorsa dal giorno della nascita di Toni D’Angelo – qui regista e sceneggiatore – e del ritorno a casa per conoscere il figlio da parte di papà Nino, in quel momento all’apice del successo in quel di Palermo, intento a protrarre la “sceneggiata” ben oltre le date previste, addirittura diciotto giorni. E quella distanza lì è quella che poi crescerà giorno dopo giorno naturalmente come in qualunque famiglia, come tra qualunque figlio che vuole ribellarsi al padre.
Figuriamoci di fronte ad un babbo che raccoglie folle di centinaia di migliaia di persone, che dal vicolo di San Pietro a Patierno (Napoli, e dove sennò?) sciorina i palchi di Wembley, dell’Olimpia di Parigi, del Madison Square Garden. Nino, 18 giorni documenta in doppia chiave oggi/ieri, Nino anziano/Nino giovanissimo, girato odierno/chilometri di super8, Betamax, VHS, un avvicinamento sentimentale che avviene con il filtro della videocamera. Perché Toni è dietro quella videocamera da decenni. Si sente, si percepisce, si ascolta, si intravede in qualche specchio che lo sdoppia frontalmente. Toni filma, fotografa, registra. E il film è già all’interno di quel percorso passato, di quegli anni che trovano solo oggi una sintesi, una forma finita.
Certo Nino. 18 giorni è sempre curiosa, frizzante meraviglia di fronte all’icona della musica napoletana e italiana, del re del neomelodici, il “delfino” di Merola (sempre spaccone, sempre attore, anche nel breve e prezioso momento con Nino al Trianon), quando ancora le spalline della giacca gli cadevano penzolanti (lo chiamavano da piccolo il “semenzella”) e teneva un caschetto modello Raffaella Carrà. Ripercorrendo quella lunga, inattesa, florida carriera, Toni riscopre non solo il legame diretto, la radice genetica che lo lega al padre (“l’ho riscoperto da metallaro come fecero i critici con la sua musica”) ma offre allo spettatore anche un interessante squarcio nella crescita, nell’affermazione professionale di babbo Nino, tra gli anni settanta e ottanta, uomo del popolo e con la sua musica per il popolo, della sua numerosa famiglia unita, dell’elogio di Miles Davis, del secondo posto in classifica tra Duran Duran e Dire Straits. In alcuni momenti, quelli dell’infanzia del nostro sembra quasi un film di Pietro Marcello prima maniera, con un uso sistematico, abbellente di filmati d’archivio sulle masse e negli ambienti larghi di strade e luoghi. Nelle sale il 20 novembre prossimo con Nexo.
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