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Dino Zoff: «L’errore capita: basta pensare “se avessi potuto fare diversamente, l’avrei fatto”. Non bisogna portarselo addosso, altrimenti diventa pesante ed è difficile recuperare»

Si è sposato giovane?

«Nel ‘68. Per quelli della mia generazione era naturale pensare di formarne una famiglia, si dava quasi per scontata e faceva parte del percorso di ognuno di noi».

Oggi non è così.

«No, ma ci sono tante altre alternative e tanti tipi di unioni. È sicuramente diverso».

Festeggia, ancora, con sua moglie, gli anniversari?

«In un certo senso sì. Senza grandi feste però».

Se invece dovesse pensare al momento più buio?

«La perdita dei miei genitori, è stato pesante e difficile da superare».

Che rapporto aveva con loro?

«Friulano».

Scusi?

«Un rapporto solido. Non erano persone molto espansive, e nemmeno così affettuose, ma sempre concrete, e non mi hanno mai fatto sentire la loro mancanza, erano presenti in tutto e per tutto».

È stato suo padre a trasmetterle la passione per il calcio?

«In realtà no. Ho cominciato da bambino, quasi per conto mio. Mi sono messo in porta sin dall’inizio e poi da lì non mi sono più mosso».

Come la presero i suoi genitori quando capirono che voleva giocare seriamente?

«Non fecero problemi. Io lavoravo e studiavo, e nel frattempo giocavo. Mio padre mi disse: “Se studi facciamo i sacrifici per farti studiare, se no vai a imparare un mestiere. Poi puoi giocare: se sarai bravo potrai continuare”. Era tutto molto semplice».

Non facevano tanti giri di parole…

«Zero. Era un ragionamento facile da capire: libertà, ma con responsabilità. Ero assolutamente libero, ma la sostanza era: “prima impari un mestiere, poi giochi”».

Direi che è andata bene.

«Ho fatto il mio».

Che mestiere aveva scelto?

«Ho fatto il meccanico. Mi piacevano i motori. Ho avuto una decina di auto, la più bella era una berlina brillante».

Avrebbe continuato su quella strada?

«Sì. Ma venivo anche da una famiglia contadina, c’erano anche altre opportunità, comunque fosse andata cadevo in piedi».

Quali sbagli ha fatto?

«Tantissimi».

Le pesavano di più quelli in campo o quelli nella vita privata?

«Dipende».

Ce n’è uno che ricorda ancora oggi?

«.No. Credo che in qualsiasi errore si possa trarre una lezione da imparare. L’errore capita: basta pensare “se avessi potuto fare diversamente, l’avrei fatto”. L’importante è interpretarlo. Bisogna considerarlo per quello che è, ma non portarselo addosso, altrimenti diventa pesante ed è difficile recuperare. Poi sa, se parliamo di calcio, i portieri ne fanno tanti di errori, difficile sceglierne uno».


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