Diffamazione, Mignini perde il primo round contro il blogger Segnini sulla vicenda “Mostro di Firenze”
Il primo tempo nello scontro tra l’ex pm Giuliano Mignini e il blogger Antonio Segnini, in relazione al caso del “Mostro di Firenze”, è andato al secondo, con il giudice del Tribunale civili di Perugia che ha rigettato la richiesta di condanna per diffamazione del blogger nei confronti dell’ex magistrato.
I protagonisti
Giuliano Mignini, magistrato di Perugia (nato nel 1950, formalmente in pensione dal 2020), è noto per aver seguito due casi ad altissima visibilità: il delitto di Meredith Kercher (2007) e le indagini sulla misteriosa morte del dottor Francesco Narducci, collegata ai delitti del Mostro di Firenze. L’inchiesta su Narducci (scomparso nel 1985) avanzò ipotesi che collegavano la sua morte a una trama di occultamenti e coperture, ma molte delle accuse caddero per giurisdizione o per scadenze dei termini, mentre una buona parte dell’indagine fu ritenuta valida dal giudice per le indagini preliminari, ma di fatto prescritta.
Il blogger Antonio Segnini, autore su mostrodifirenze.com, ha pubblicato numerosi articoli critici sulle modalità delle indagini avviate da Mignini, soprattutto riguardo all’inchiesta Narducci. Segnini, ad esempio, ha messo in discussione l’assenza dell’autopsia, contestato le foto, la visita esterna del corpo e la correttezza delle procedure giudiziarie, oltre all’approccio investigativo complessivo.
Mignini ha risposto al blogger sostenendo che aveva scarsa conoscenza del diritto e dell’indagine penale, accusandolo di superficialità, prolissità, confusione e inesattezze, in particolare sul presunto dialetto umbro e su cosa non fu fatto a Sant’Arcangelo del Trasimeno nel 1985. Sottolineando che le indagini erano complesse, e che Segnini non poteva arrogarsele competenze tecniche non possedute.
Il confronto verbale è finito in tribunale, con un’azione civile a Perugia e una penale a Monza, in relazione a una precisa contestazione del blogger e che riguarda l’apertura dell’inchiesta a seguito di un’indagine per altri fatti: una parrucchiera di Foligno si sarebbe recata dalle forze dell’ordine per denunciare una serie di telefonate anonime. Su consiglio della Polizia avrebbe registrato queste telefonate e in una chiamata veniva minacciata che avrebbe fatto la stessa fine del “medico morto al Trasimeno” e in un’altra chiamata sarebbe stato fatto il nome di Pacciani.
Per il blogger Segnini l’ex pm Mignini avrebbe confuso date, eventi e nomi, affermando, secondo lui, il falso con la storia della parrucchiera e che nessun nome sarebbe stato fatto. Almeno secondo quanto riportano i documenti reperiti. Il medico morto al Trasimeno, inoltre, non sarebbe Narducci, ma un dentista scomparso in tragiche circostanze. Il pm Mignini ha portato il caso davanti al giudice sostenendo che ci sono informative di polizia, gli atti del processo parallelo per le minacce, e testimonianze dei suoi investigatori, che ricostruiscono perfettamente la genesi dell’indagine.
La sentenza
Il giudice civile di primo grado ha bocciato la richiesta di Mignini, riconoscendo il pieno diritto di critica di Segnini le cui parole non hanno mai esondato il limite dell’offesa e della gratuita diffamazione.
Per il giudice “il diritto di critica nei provvedimenti giudiziari e dei comportamenti dei magistrati deve essere riconosciuto nel modo più ampio possibile non solo perché la cronaca e la critica possono essere tanto più larghe e penetranti, quanto più alta è la posizione dell’homo publicus oggetto di censura e più incisivi sono i provvedimenti che può adottare, ma anche perché la critica è l’unico reale ed efficace strumento di controllo democratico dell’esercizio di una rilevante attività istituzionale che viene esercitata – è bene ricordarlo – in nome del popolo italiano da persone che, a garanzia della fondamentale libertà della decisione, godono giustamente di ampia autonomia e indipendenza”.
L’ex pm Mignini ha già annunciato appello e a settembre si aprirà il processo penale a Monza, per gli stessi fatti, dove saranno chiamati a testimonia il magistrato stesso e gli investigatori dell’epoca (che il giudice civile non ha ammesso, ndr).
Dottor Mignini, qual è stata la sua reazione?
È stata una vicenda surreale. In un mondo normale sarebbe stata risolta immediatamente, e in tutt’altro modo. Vengo informato dalla Squadra Mobile, da due poliziotti, nel luglio 2001, che un’estetista riceve telefonate minatorie, molto gravi, da parte di sedicenti appartenenti a una setta satanica. La minacciano, senza che se ne capisca bene il motivo (lei non racconterà mai cosa c’era nel suo passato). Inizialmente la vicenda è affidata alla collega Della Monica, poi passa a me. Ricordo perfettamente, anche se dopo più di vent’anni non ci sono più tutti i documenti. Era il periodo del G8 e delle stragi dell’11 settembre. I due poliziotti mi dicono che hanno invitato la vittima a registrare le telefonate. Lei lo fa, usando delle audiocassette, che poi consegna. In una telefonata si fanno riferimenti al Forteto, al Mugello, a Pacciani definito ‘traditore di Satana’. Dopo un po’ si parla del ‘grande medico del lago’, e le dicono che le avrebbero fatto fare ‘la fine del medico del lago’. Viene anche detto che quell’uomo è stato trovato morto, strozzato, in un lago. Dispongo quindi delle indagini, e il dirigente Angeloni individua alcune persone, testimoni. Mi convinco che c’è una notizia di reato e, il 25 ottobre 2001, apro il procedimento n. 17869 contro ignoti. Trasmetto gli atti a Firenze, da cui ricevo richiesta di collegamento delle indagini”.
Poi che succede?
“Arriva Segnini e la vicenda diventa quasi comica, se non fosse tragica. Non trovando tutti i documenti, si convince che queste telefonate non siano mai esistite, e inizia a scrivere contro l’inchiesta e contro di me. Lo contatto dopo un po’, anche perché la polizia mi ha realizzato un dossier. Ma lui continua a sostenere che io abbia inventato tutto, accusandomi di aver simulato un reato. Secondo lui lo stesso avrebbero fatto la Procura di Firenze e la Squadra Mobile. Sostiene che i riferimenti siano del 2002, cioè relativi a eventi successivi alle registrazioni e al reato. Cerco di spiegarglielo, ma non c’è verso. Quando però la vicenda arriva all’attenzione di un giudice, le sue affermazioni diventano calunniose, perché mi accusa, senza fondamento, di aver simulato un reato. Soprattutto quando il fatto diventa oggetto di un processo. Ma cosa sarei, un profeta?”.
E adesso?
“Si sarebbe potuto risolvere tutto molto facilmente. Invece adesso c’è un processo penale a Monza, a settembre, e un giudizio civile già in primo grado, dove però il giudice non ha voluto sentire i testimoni. Segnini si è opposto all’audizione dei poliziotti, e capisco il perché: era una manovra per evitare che la verità venisse a galla. Il giudice ha deciso solo sugli atti, e questa è una cosa quantomeno singolare. Faremo appello, chiedendo di essere ascoltati — sia io che i testimoni — per chiarire le date in cui si sono avute notizie e la trasmissione delle cassette. C’è una sentenza? Ne prendiamo atto, ma andiamo avanti. Tutto questo, paradossalmente, conferma la fondatezza dell’impianto accusatorio. È un’assurdità che contrasta con l’intera inchiesta. È lo stesso meccanismo già visto con Mario Spezi, in merito a un dentista morto nei pressi del Trasimeno, poi smentito dalle sentenze”.
Source link