Società

Diana Anselmo: «Il mio orgoglio è la mia sordità. E qui vi spiego perché»

Non c’è da stupirsi: lo Short Theatre, il festival internazionale dedicato alle performing arts, è da anni che porta in scena, nei teatri di Roma, spettacoli innovati e dirompenti. Osa, prova, fa scoprire. E quest’anno, nel suo programma che dura fino al 15 settembre, non si smetisce. Ed è lì che abbiamo incontrato Diana Anselmo, attivista, performer sordx bilingue in italiano e LIS (lingua dei segni italiana), è co-founder dell’associazione Al.Di.Qua. Artists e al festival porta il suo «Monumentum Da»  (l’8 settembre alle 19:30, a La Pelanda – Teatro 1), con cui intende amplificare e dare spazio alle possibilità performative intrinseche alla lingua dei segni, una lingua viva, corporea, «che non parla di margini», dice lei, «ma di nuovi pezzi di orizzonte».

Una scena tratta dallo spettacolo «Momentum Da»

Una scena tratta dallo spettacolo «Momentum Da»

L’intervista di Diana Anselmo

Lei fai parte di un’associazione di artisti e artiste con disabilità: che cosa fate? Che cosa chiedete? Su che cosa lavorate soprattutto?
«L’associazione di cui faccio parte e che ho fondato, con le altre, nel 2020 si chiama Al.Di.Qua. Artists (acronimo del più lungo Alternative Disability Quality Artists) ed è la prima associazione di categoria in Europa a essere interamente gestita da artisti disabili. Si pone come obiettivo l’advocacy per il diritto all’accesso di artisti e lavoratori dello spettacolo con disabilità.
L’assunto di base di Al.Di.Qua. è che l’opposto della disabilità non è l’abilità – al contrario di quanto possa sembrare a prima vista – bensì l’accesso. L’accessibilità che non è altro che il diritto a poterci essere, e che quindi ci riguarda tutte e tutti. Dentro Al.Di.Qua. dunque parliamo di accessibilità, e lo facciamo attraverso workshop e/o conferenze, attraverso il nostro proprio singolare lavoro artistico, attraverso quelle che chiamiamo “messe in accessibilità” di spettacoli già esistenti – di cui curiamo la resa accessibile a un pubblico cieco / sordo / neurodivergente coniugando la questione etica e politica con la questione estetica e poetica».

Qual è la sua storia? Cosa ha studiato, quando e come ha iniziato a lavorare?
«Il mio percorso artistico inizia nel 2021 con la lecture-performance Autoritratto in tre atti: è un solo in cui tratto il tema dello sguardo, declinandolo sotto tre diversi punti di vista: lo sguardo proprio, come percepito dalla singolare scatola cranica dell’artista; quello subìto, che mette in campo il tema dell’intrusività degli sguardi altrui, non richiesti e patiti; per finire con quello riappropriato, che rovescia l’oggetto in un soggetto. Per realizzare la performance è stata fondamentale la laurea triennale in Sociologia conseguita a Trento e quella magistrale in Teatro e Arti Performative allo IUAV, che ha messo a disposizione sale e attrezzature video per realizzarla. In generale, però, posso dire che buona parte degli artisti con disabilità si sono formati o da soli o andando all’estero. Per esempio, Aristide Rontini, un componente di Al.Di.Qua., ha potuto studiare a Rotterdam perché in Italia nessuna scuola di danza accettava la sua disabilità fisica».

Oggi c’è ancora molta discriminazione verso chi ha disabilità? Il nostro mondo di oggi quanto e come è accessibile a chi ha disabilità? C’è una legge che manca e che ci vorrebbe?
«Posso partire facilmente dal caso che mi riguarda, ovvero la sordità. Quali scuole pubbliche impartiscono lezioni direttamente in LIS? Quali ospedali hanno almeno una persona segnante all’interno? Quali istituzioni pubbliche? Che succede se resto bloccato in ascensore? La discriminazione è infatti a più livelli: istituzionale, sistemica e interpersonale. Nella fattispecie della comunità sorda si chiama “audismo”, ed il fatto che il computer ancora segni questa parola con una linea rossa tratteggiata lascia intendere tutta la sua invisibilità».

Quale considera il suo maggior successo?
«Sul piano personale mi piace pensare che il mio maggior orgoglio sia quello che fino a qualche anno fa era la mia principale vergogna, ovvero la mia sordità. In un mondo che ti insegna costantemente a celare ogni deviazione dal corpo abile, sano, bianco, eterosessuale e cisgender, è facile allenarsi a farsi da parte e nel dubbio, non pretendere. Dal punto di vista professionale direi la mia mostra personale a Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, aperta fino metà ottobre: Je Vous Aime, questo il titolo, è una ricerca sulla relazione tra le origini del Cinema e la storia di oppressione della comunità sorda. L’oralismo e la chimera tutta udente della “guarigione” del corpo sordo avevano portato all’abolizione delle lingue dei segni da tutta Europa nel 1880. Per via del divieto, tutti gli istituti di sordi (gestiti da udenti) si trovavano concordi nel dover forzare nei loro allievi l’apprendimento unico della lettura labiale. Tale imposizione portò all’invenzione di una tecnologia di proiezione di immagini in movimento, come strumento scolastico di esercizio della lettura labiale, anticipando il cinematografo di quattro anni.  E così, la prima proiezione video della Storia dura un secondo ed avviene nel 1891. Cosa riprende? Il primo piano di un uomo che parla. E dice, Je Vous Aime».

I suoi progetti futuri?
«Il mio progetto futuro è continuare la ricerca artistica fra Storia e, come dice il filosofo francese Gilles Deleuze, l’Antistoria: coloro di cui la Storia non tiene conto. Vorrei approfondire come una politica audista abbia non solo portato indirettamente alla nascita del Cinema, ma anche a quella degli odierni dispositivi di registrazione ed emissione del suono. Telefono, giradischi e microfono nacquero con il preciso intento di “curare” la sordità, di cancellare le lingue dei segni e di “guarire” bambini e bambine sorde. Il primo dispositivo capace di registrare il suono e riprodurlo è del 1877. E la prima registrazione di sempre non fu una musica, o una melodia. La prima registrazione dell’Umanità fu una frase parlata».


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