Società

Dentro un Centro Anti Violenza, «È arrivata con il volto gonfio e le mani che tremavano. Denunciare? Ma come faccio? È mio figlio»

Non aveva dormito da giorni. Da anni, forse. È arrivata al centro antiviolenza con il volto gonfio, le mani che tremavano, il corpo rigido di chi non si fida più neanche dell’aria. Poche ore prima suo figlio, diciannove anni, l’aveva inseguita in macchina, lungo una strada di provincia. Lei era riuscita a seminarlo, a scappare, a parcheggiare davanti al cancello del centro. Era stata picchiata con pugni alla testa, colpevole di non aver stirato la sua maglietta preferita. L’abbiamo fatta entrare, ci siamo barricate dentro. Quando ha iniziato a raccontare, la violenza ha preso forma in un elenco infinito. Il compagno che la umilia, che la costringe, che la tratta come una serva. Il figlio che la comanda, la insulta, replica quelle vessazioni. Anni di violenze fisiche, psicologiche, sessuali. Nessuno che si sia mai preso cura di lei, neanche quando stava male, nemmeno quando ha dovuto affrontare un cancro. Un’intera vita passata a obbedire.

Nel suo racconto c’era tutto: la paura, la vergogna, la rassegnazione. Ma anche una lucidità terribile. Aveva capito che il figlio non era «impazzito»: aveva solo imparato. Era cresciuto vedendo un uomo imporre, urlare, colpire. Aveva imparato che quella era la lingua dell’amore, o almeno della presenza. E lei, quella lingua, purtroppo, l’ha dovuta parlare da sempre.

Eppure quando le operatrici del centro le hanno spiegato cosa significasse denunciare — che bisognava nominare il compagno, e il figlio — si è bloccata. Ha abbassato la testa e ha detto piano: «Ma come faccio? È mio figlio». Poi è rimasta in silenzio. Un lunghissimo, denso, silenzio. E alla fine ha scelto di tornare a casa.

Poche ore dopo, un’altra donna è arrivata di corsa, in macchina. Dietro di lei, l’uomo da cui stava fuggendo. Ha parcheggiato come una furia di traverso davanti al centro, ha urlato, ha bussato, è corsa dentro. Lui era già lì fuori. Minacciava, urlava, batteva i pugni sulla porta. Ci siamo barricate dentro. Abbiamo chiamato i carabinieri, che sono arrivati dopo minuti che sono sembrati ore. Le operatrici tenevano la donna in una stanza senza finestre, cercando di calmarla. La paura era tangibile, fisica. Anche dopo che i carabinieri e l’aggressore se ne sono andati, nessuna di noi ha avuto il coraggio di uscire subito. Ci affacciavamo a turno, per controllare che lui non fosse tornato.

Quella donna l’abbiamo accompagnata in una casa rifugio, lontano da qui. Le abbiamo trovato un letto, coperte pulite, un pasto caldo. Ci ha ringraziate con una voce che sembrava un sussurro. Ma la mattina dopo, ha detto che voleva tornare da lui.

E lo ha fatto.

C’è un momento, nel lavoro di chi opera in un centro antiviolenza, in cui tutto si ferma. Quando le donne che hai protetto, ascoltato, accudito, scappano via — ma nella direzione sbagliata. Quando le guardi andare verso chi le distrugge, e non puoi trattenerle. Perché il principio sacro, quello su cui si regge ogni intervento, è la libertà di scelta.


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