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Dentro la prima cerimonia italiana della The World’s 50 Best Restaurants: come è andata

E anche quest’anno, la The World’s 50 Best Restaurants è andata. Ed era un anno speciale, per la classifica dei migliori cinquanta ristoranti al mondo: era il suo primo anno italiano. La “Fifty” (come la chiamano gli amici, e talvolta fa anche un po’ quell’effetto di fingere di essere un insider trovando dei nomignoli gergali condivisi dalla cricca, ma la semplice verità è che The World’s 50 Best Restaurants è un nome lunghissimissimo) aveva scelto Torino, anche un po’ a sorpresa, per la prima edizione italiana della storia, e da subito la parte gastronomica della città (dove vive e lavora chi scrive) ha gioito di quella che pareva essere un’opportunità senza precedenti. Non solo di visibilità per Torino, per i suoi cuochi e per i suoi ristoranti, ma anche di incontrare chef internazionali e giornalisti di settore provenienti da tutto il mondo: insomma, una settimana (poco meno dura tutto il carrozzone della 50 Best, dal via alla festa di chiusura) dal potenziale culturale elevato, se il cibo è cultura. E tutto si può dire sulla The World’s 50 Best Restaurants, ma non che non faccia cultura del cibo, permettendo al “suo” pubblico di ascoltare le parole di alcuni personaggi davvero d’ispirazione e ricchi di contenuti, soprattutto nei 50 Best Talks, gli appuntamenti in cui gli chef raccontano la loro filosofia, e in cui quest’anno ha brillato per esempio l’australiana Mindy Woods, con il suo bellissimo racconto della cucina aborigena, o Ago Perrone e Giorgio Bargiani, i ragazzi del Connaught Bar di Londra, che sul palco sembravano un duo di showman navigati.

Nel frattempo, l’organizzazione piemontese della The World’s 50 Best Restaurants è andata come è andata, con qualche inciampo lungo il percorso e con il timore che il tutto potesse finire non proprio secondo le aspettative.

Resta da capire se sia stato così, se questa 50 Best sia stata un’opportunità ben sfruttata dal territorio (e dagli chef, che avevano la possibilità di incontrare tutti i voters del mondo, quelli che l’anno prossimo potrebbero farli salire in quella che al momento è la classifica di settore più ambita). Ed ecco come è andata.

L’aperitivo di benvenuto, frutto di una scelta deludente

L’avevamo temuto fin da subito, e così è stato: ma possibile che non ci fosse un luogo migliore (più bello, più rappresentativo della città, più caldo e accogliente) del Lingotto Fiere per organizzare la cerimonia di premiazione? Un non-luogo, che poteva essere a Torino come a Timbuktu, ma che ahimé era a Torino. Perfetto per il suo scopo – il polo fieristico – non è certamente il luogo adatto a una cerimonia-show in abito da sera e tacchi alti.

L’organizzazione aveva motivato la scelta con la necessità di ospitare la 50 Best numericamente più grande di sempre, ma suvvia, non si può credere che non ci fosse un’alternativa migliore a cui pensare, da proporre e su cui eventualmente insistere per raccontare meglio Torino e i suoi spazi.

Com’è come non è, la 50 è stata al Lingotto, e le perplessità serpeggianti (di cui chiunque lavori nel settore ha sentito parlare, in queste settimane) si sono almeno in parte realizzate. La location era bruttina, fredda, inadatta e assolutamente perdente nei confronti delle cerimonie degli anni precedenti, perfino di quella di Las Vegas che pure si era svolta, per la prima parte, nella gigantesca sala da feste di un gigantesco hotel, senza che però questo luogo emanasse alcun calore negli invitati.

L’aperitivo pre premiazione, in una sala così grande e poco allestita (ma difficilmente forse si poteva fare di più, visti gli spazi davvero enormi) è stato una delusione: poche cose da mangiare, alcune pure così così, e gli stand sparsi qua e là, con un effetto un tantino horror vacui. Insomma, l’inizio non è stato dei migliori, bisogna decisamente dirlo.

The World's 50 Best Restaurants 2025 Group shotThe World’s 50 Best Restaurants 2025 – foto di gruppo degli chef

Meglio la cerimonia di premiazione, all’Auditurium Giovanni Agnelli del Lingotto che è bello e spazioso, pur avendo dei giganteschi problemi di connessione ieri sera non del tutto risolti dal wifi che insomma, non è il massimo se sei un giornalista e vuoi dialogare con l’esterno per aggiornarlo in tempo reale sulla cerimonia della ristorazione più importante dell’anno. Ma vabbe’.

Apre John Elkann, padrone di casa (e ci è sembrata un’anomalia nel cerimoniale standard della 50 Best), seguito dal presidente della Regione Alberto Cirio (che fa pure – in inglese – un discorso molto pop e convincente, nel suo stile, ma che non si capisce perché debba dire una frase come “il Piemonte è la terra della Nutella”, citando una multinazionale del territorio che sì è conosciuta in tutto il mondo, ma che forse proprio per questo non aveva bisogno di uno spot da quel palco, dove da sempre si parla di fine dining, di altissima gastronomia, di prodotto e materia prima. Come se l’anno scorso, da Las Vegas, qualcuno avesse dichiarato orgogliosamente che “l’America è la terra della Coca Cola”. Anche no, su) e dal ministro Francesco Lollobrigida, che fa una comparsata così, giusto per un saluto e per ricordare quanto è bello il Made in Italy e la candidatura della Cucina Italiana a Patrimonio Unesco e che nel mondo si mangerà pure bene ma come cucinano le nonne nessuno mai (una me la sono inventata, indovinate pure voi quale).

Un’intro lunghetta, in effetti, a cui per fortuna mette fine il sempre elegantissimo e sorridente William Drew, facendo partire il countdown annunciato dalla – brava – giornalista presentatrice poliglotta Ilaria Mulinacci, che mi dicono essere stata definita oggi da un collega “bella donna di nome Ilaria”, e bisognerebbe davvero anche smetterla di parlare così delle professioniste donne che hanno un nome, un cognome e (evidentemente) una carriera da sbattere in faccia a chi le descrive solo per il loro aspetto fisico.

Per quanto riguarda la classifica, l’Italia ne esce bene, meglio dello scorso anno, con sei ristoranti in classifica, come la Thailandia, che pare essere una delle destinazioni gastronomiche che più sta spingendo nel mondo. Due parole due sul vincitore, il Maido di Lima, che riporta il meraviglioso Perù in vetta alla gastronomia mondiale (dopo la vittoria di Virgilio Martinez nel 2022. Senza nulla togliere al numero uno, in molti avrebbero voluto, con il cuore, la vittoria di Axador Etxebarri (arrivato secondo), dove Bittor Arguinzoniz (uno chef che di pr non ne fa, in una competizione in cui le pr sono fondamentali, e che nonostante questo è arrivato quasi in vetta, a dimostrazione che del merito si tiene sempre, e giustamente, conto, anche per chi crede in dietrologie e implicazioni differenti) ha costruito la sua fortuna gastronomica parlando di cucina alla brace quando questa non era ancora un tema.

Tra le molte (troppe?) chiacchiere di una cerimonia che ha sempre avuto il pregio di essere snella, c’è stato anche spazio per un discorso di Massimo Bottura e Lara Gilmore, premiati con l’Icon Awards, che in molti hanno notato essere stati gli unici a parlare tra gli chef presenti e premiati, accusando lo chef dell’Osteria Francescana di un eccesso di protagonismo. Ora, figliuoli, che Masssimo Bottura non sia un personaggio schivo non è che sia una grande notizia: lo chef deve parte della sua popolarità anche al suo fare espansivo, frutto certamente di una personalità e un ego importanti, ma pensare che si sia preso quel palco e quel discorso per un suo capriccio significa essere in mala fede e, cosa ancora più grave per chi scrive dell’evento di settore più importante del mondo, non conoscere la storia della 50 Best: anche lo scorso anno Neil Perry, vincitore dell’Icon Award, era stato l’unico a fare un discorso su quel palco. Caso chiuso, mi sembra.

Ma poi: cosa vi aspettavate da uno come Massimo Bottura? Dell’understatement sabaudo giusto perché si era a Torino? Suvvia, è Massimo Bottura, è sempre stato un animale da palcoscenico, ed è parte del suo successo (che è un successo italiano).

Torino ha vinto o ha perso (e chi sono i vincitori e i vinti)?

scannabue torino

Ultime poche parole per l’after party di chiusura, sempre nei padiglioni del Lingotto (questa volta però in stile Club to Club, quindi perfetti per l’occasione) con Benny Benassi in consolle, la pizza di Franco Pepe e i tortellini del team di Bottura. Una festa divertentissima, partecipata, personalmente il più bell’after party a cui abbia mai partecipato per la 50 Best, talmente bello da far dimenticare qualsiasi errore d’inciampo fatto durante l’aperitivo.

Un after party a cui gli chef hanno partecipato divertendosi come matti, con Bottura fisso in consolle a fare il vocalist accanto a Benny Benassi, ma dall’alto del mio aver partecipato con gioia ballando come una pazza tutta la sera non posso che, con enorme sincerità, sorvolare su qualsiasi commento in merito.

C’erano tutti (forse troppi, considerata la usuale esclusività dell’evento, che è parte del prestigio che si è costruito come appuntamento a cui tutti ambiscono a partecipare), ma soprattutto, finalmente, c’era la Torino internazionale (quella di Club 2 Club, per l’appunto).

Che poi, Torino e il Piemonte avranno certamente e sicuramente da guadagnare da quest’evento straordinario, quantomeno in termini gastronomici. Forse non tutti, ma qualcuno sì. Enrico Crippa, probabilmente, che è già molto ben posizionato in classifica (quest’anno meglio dello scorso) e che può sperare di crescere ulteriormente nel 2026, dopo aver avuto settimane di tavoli internazionali al suo Piazza Duomo.

E a guadagnare un’enorme popolarità sono state le “trattorie contemporanee” torinese (Scannabue, Caffè dell’Orologio, solo per fare un paio di nomi tra i più gettonati in questi giorni), che forse rappresentano davvero la migliore faccia della ristorazione locale, quella a cui andava dato un bel palcoscenico e che quel palcoscenico se l’è preso di diritto, incantando e colpendo a suon di agnolotti e finanziere e vitello tonnato chef ultrastellati provenienti da tutto il mondo.

 

 


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