Cultura

Death Grips – biografia, recensioni, streaming, discografia, foto :: OndaRock

Raccontare i Death Grips, un trio californiano che prende a prestito l’hip-hop per suonare tutt’altro, non è facile: sono un concentrato acido, assordante e disorientante di suoni e rumori assortiti, che usa l’irruenza del punk, la forza propulsiva dei beat dell’elettronica, la potenza cacofonica di noise e industrial per suonare una musica aggressiva e ostile, spesso volutamente incomprensibile nei testi e nell’estetica. Dal 2010, anni della loro fondazione a Sacramento, il rapper Stefan Burnett, meglio noto come MC Ride, il batterista e produttore Zach Hill e il tastierista e produttore Andy Morin si sono imposti come un punto di riferimento per un culto musicale che è stato alimentato da meme, video e altri contenuti web, secondo una dinamica sostanzialmente inedita nell’hip-hop.
L’ascesa dei Death Grips nella cultura pop del periodo è avvenuta escludendo ogni mezzo istituzionale, a partire dall’industria discografica e dai suoi tradizionali canali di promozione. Come vedremo più nel dettaglio, quando hanno provato a trovare un punto d’incontro con una
major, ne è scaturito un litigio che ha portato a una copertina che è in realtà una dick pic. Una strategia che avrebbe fino a pochi anni prima relegato qualsiasi gruppo hip-hop a rimanere una curiosità dell’underground si è trasformata, per i Death Grips, in una atipica traiettoria verso il successo di critica e, in modo assai più sorprendente, di pubblico.

Il passaggio da oscuro trio californiano a icona dell’Internet che trova il suo centro nevralgico nel controverso sito 4chan meriterebbe un saggio a parte. Qui si può tentare di riassumere così: su 4chan un mix torbido di illegalità, immoralità, ossessione, ironia e trasgressione trova nei Death Grips una sintesi ideale, il veicolo sonoro di una sottocultura che accomuna ragazzini un po’ strambi, emarginati o disturbati di mezzo mondo. Da 4chan la notizia dell’esistenza dei Death Grips si diffonde, come un virus, in altri luoghi del web più o meno mainstream, da Reddit e YouTube a tutti i social network. Succede senza che intervenga l’industria, né che la formula sia resa potabile per un pubblico più trasversale.
I Death Grips occupano una nicchia che trova estimatori in luoghi lontanissimi dalla loro California, dagli stessi Stati Uniti e, persino, dagli ascoltatori di musica hip-hop. Questo avviene grazie a un mondo iperconnesso che all’altezza del 2010 è diventato da poco realtà, attraverso l’espansione della base utenti di colossi come Youtube e Facebook (Instagram è, invece, appena nato). Il trio rimbalza in questi canali web, senza che sia assicurata una qualche contestualizzazione. Sotto forma di immagini, gif e video invade le bacheche e i canali. Questa diffusione virale comporta che qualcuno conosca la band non attraverso l’ascolto di un singolo, un Ep o un album, ma tramite frammenti sonori, parodie e
meme. La proposta sonora ostile, aggressiva, scioccante e disorientante del trio è resa ancora più incomprensibile, e quindi trasgressiva ed esilarante, da questa continua decontestualizzazione e rilettura, nonché dalla moltiplicazione delle occasioni di fruizione. Il sito Know Your Meme, che racchiude la storia di quella parte del web che gira intorno ai meme, ricostruisce una parte di questo proliferare di contenuti, in buona parte andati inevitabilmente perduti in mille rivoli di internet.

Se altre formazioni dell’hip-hop più eccentrico e sperimentale hanno trovato riscontro presso un pubblico ristretto di estimatori, i Death Grips sono arrivati imprevedibilmente anche a un pubblico rock e metal, agli amanti di tutte le musiche più weird e anche a chi, fondamentalmente, di musica si interessa poco e nulla. Non è paradossale, vista l’evoluzione di Internet dal 2010 a oggi, che tutto questo sia avvenuto senza che diventassero un gruppo mainstream.
Attraverso una produzione assai prolifica, perfettamente in linea con la sottocultura web che li ha eletti a icone degli anni Dieci, hanno segnato la musica in appena un decennio scarso di carriera. All’altezza del 2018, come vedremo, la loro parabola può dirsi sostanzialmente conclusa. Nel febbraio del 2025 è trapelato un messaggio su Instagram che suggerirebbe la fine della band: la conclusione ideale per la prima formazione hip-hop che può dirsi una creatura di Internet.

Il percolato di Internet: dalla fondazione alla firma con la Epic 

Zach Hill e Andy Morin hanno già collaborato insieme quando conoscono Stefan Burnett. Il trio nasce ufficialmente il 21 dicembre 2010 e lo stesso giorno pubblica “Full Moon (Death Classic)”. Difficile immaginare qualcosa di più disordinato e ansiogeno, con il ritmo che inciampa, Mc Ride che urla come un invasato e la produzione che tra distorsioni e riverberi confonde fino a nauseare. Dopo due minuti circa il brano viene monopolizzato per qualche secondo da una sirena dell’Apocalisse, a volume assordante, che ritorna anche più avanti.

L’Ep Death Grips (2011) contiene sei brani che presentano in modo più completo la loro idea di musica, che è poi anti-musica. La chitarra distorta di “Death Grips (Next Grips)” è il pretesto per un assalto rap-rock spaccatimpani, ma il trio cambia continuamente la dinamica del suo attacco all’ascoltatore: attraverso un collage cacofonico in “Face Melter (How To Do Impossible Things)”, richiamando gli strumentali del prog-rock in “Known For It (Freak Grips)”, annegando nei riverberi e nei bassi distorti in “Takyon (Death Yon)” o riducendosi a un rap-rock degno dei Run DMC in “Where’s It At (Death Heated)”.
I
sample uniscono, secondo una logica del disordine e dell’imprevedibile, Nancy Sinatra e Daft Punk, Beatles e Bad Brains, Magma e Pink Floyd. L’Ep è pubblicato gratuitamente, in un archivio Zip senza informazioni neanche sui numeri di traccia: si ascoltano i sei brani in semplice ordine alfabetico.
Il video di “Full Moon (Death Classic)” è l’ideale completamento di questo assalto ai sensi: Mc Ride, che più che rappare sembra in preda a una crisi di nervi, si alterna alle immagini di un uccello che mangia una carcassa; luci stroboscopiche ed effetti visivi sovraccaricano lo spettatore fino a provocare un’ipestimolazione nauseante. Il percolato di Internet è diventato musica e quella musica sono i Death Grips. Se i Carcass sono stati la trasposizione in musica del
gore, i tre californiani lo sono della più ostile, caustica, impresentabile meme culture.


Quindi pubblicano, sempre gratuitamente, il
mixtape Exmilitary (2011), destinato a rimanere la fotografia più cruda del loro disordinato terrorismo sonoro. Jane’s Addiction e Charles Manson si uniscono nella lunga “Beware”, quasi sei minuti di tensione e ansia dove il protagonista del mixtape inizia un percorso nella depravazione morale. Il singolo più famoso dell’intera carriera, “Guillotine”, è il loro manifesto estetico: una filastrocca ossessiva, con suoni elettronici distorti e ripetizioni spietate accompagnato da un video perfetto per i meme, con MC Ride che rappa in auto mentre la qualità video vede l’immagine minacciata da un progressivo deterioramento. Difficile immaginare di concentrare in meno di quattro minuti più velenoso, comico malessere di così.


L’ascoltatore continua comunque a essere maltrattato lungo tutta la scaletta, strapazzato dai
sample e dagli svolgimenti dei brani sempre caotici e incoerenti. Nell’assalto sensoriale affiorano i Black Flag nel baccano di “Klink”, un gruppo a loro più affine rispetto ai vari Public Enemy, Run DMC o Beastie Boys. Nell’imprevedibilità generale, ogni tanto affiorano anche qualche melodia e qualche momento di relativa calma e distensione, ma dopo pochi minuti è difficile non viverli come momenti tensivi, nei quali attendere il prossimo assalto.
Disturbante e nauseante nel suo rumore caotico, nel suo disordine totale,
Exmilitary è un insieme di spasmi e ossessioni trasformate in musica. Quello che MC Ride urla, e più raramente rappa, è sostanzialmente irrilevante perché contano di più l’intenzione e il contesto sonoro in cui accade. Anche per questo, come si diceva in apertura, considerarli un gruppo hip-hop può essere fuorviante. Ben otto brani sono accompagnati da videoclip, fondamentali per permettere al virus di diffondersi.
L’azione distruttrice del trio è ancora in piena potenza quando la Epic li convince a firmare per pubblicare un primo album ufficiale. Sarà, come vedremo, un’occasione unica per lasciare un segno nella storia della musica del periodo, ma anche, per altri motivi, l’inizio di un percorso di autodistruzione artistica irrimediabile.

Il successo di The Money Store, la rottura con la Epic e la dick pic in copertina

dgcorpo1The Money Store (2012) è l’album della consacrazione, il momento in cui per qualche mese hanno l’opportunità irripetibile di diventare famosi anche fuori dalla loro nicchia. I motivi sono principalmente due: uno è legato alla web culture, che ha generato tantissimo materiale che li vede protagonisti e che ha alimentato una bolla che, per forza di cose, è destinata prima o poi a esplodere; l’altro è di natura più strettamente musicale ed è connesso a mezzi migliori per dare forma alle idee musicali già ascoltate nelle prime pubblicazioni, senza che questo possa già configurarsi come un impoverimento creativo. The Money Store vive di questo equilibrio precario e fugace, che loro stessi non riusciranno più a trovare.
L’assalto scomposto di
Exmilitary è stato ricondotto a una più coerente sequenza di brani che travolge l’ascoltatore. È lo stesso insieme di ritmi elettronici, rap-filastrocca difficili da interpretare, rumore, campionamenti e distorsioni già ascoltato nelle prime pubblicazioni, ma incanalato in modo più efficace in canzoni atipiche tra i due e i tre minuti.
C’è un filotto iniziale che basta a fare di
The Money Store un’esperienza con pochi paragoni: il balbettare ossessivo di “Get Got”, il tribalismo futuristico di “The Fever (Aye Aye)”, l’elettronica thriller di “Lost Boys”, l’allucinazione hip-hop di “Blackjack” e la più energica ed esplosiva “Hustle Bones” conducono al brano più immediato dell’album, l’esagitato rap-rock di “I’ve Seen Footage”, una rivistazione dei Beastie Boys con una chitarra elettrica che funge da sfondo per un MC Ride che si sgola senza sosta.
Dopo questo sestetto l’album ha già definito la sua estetica e può permettersi di allentare la presa nella tensiva “Double Helix”, prima di assaltare l’ascoltatore con le distorsioni
brostep di “System Blower” o spiazzarlo con il chaabi marocchino unito a Jimi Hendrix di “Punk Weight”. Con i timpani più o meno integri si giunge a “Hacker”, un inaspettato finale electro a volume nocivo che racconta un attacco informatico in forma di festosa minaccia, con tanto di ritornello da urlare in coro:

I’m in your area, I’m in your area
I’m in your area, I’m in your area
I know the first three numbers, I’m in—
I know the first three numbers, I’m in—
I’m in your area, I’m in your area
I’m in your area, I’m in your area
I know the first three numbers, I’m in—
I know the first three numbers, I’m in—

D’altronde, da Internet partirono e di Internet si nutrono. Uno dei più famosi critici musicali di YouTube, Anthony Fantano, premia l’album con uno dei suoi pochissimi 10/10. Pitchfork, altro riferimento imprescindibile per la web culture del periodo, saluta l’album come un capolavoro. Si è persa una parte dell’abrasività di Exmilitary, ma il guadagno in termini di efficacia e contagiosità è notevole: il disordinato rumore di un tempo è stato incanalato in brani turgidi e assordanti ma anche facili da memorizzare e canticchiare, nonostante l’immaginario ultraviolento, i versi incomprensibili e paranoici, le ripetizioni ossessive suggeriscano che sia inopportuno, quasi pericoloso.
The Money Store è come Rotten, il famigerato shock site il cui slogan era “An archive of disturbing illustration”, unito a eFukt, un sito che raccoglie materiale vietato ai minori dai contenuti weird. La parte strana dell’Internet, come si suol dire, apprezza e ringrazia. Il mondo musicale istituzionale delle classifiche se ne rende appena conto, come prevedibile.

L’accordo con la Epic già scricchiola. Il secondo album dovrebbe arrivare a ottobre 2012, si dovrebbe intitolare “No Love”. L’etichetta vuole rimandarlo, forse perché il processo creativo sembra instabile e fuori controllo. Chiaramente, i Death Grips fanno di testa loro e pubblicano il secondo album, con il titolo ritoccato in No Love Deep Web, rendendolo disponibile online gratuitamente. L’album è condiviso anche sul servizio di filesharing BitTorrent e totalizza oltre 31 milioni di brani scaricati… nel primo giorno, come sottolineato da Billboard. Dopo poche ore il sito web della band viene tirato giù, anche se la Epic nega ogni coinvolgimento nella vicenda.
In ogni caso, i Death Grips si trovano nuovamente senza etichetta e sono liberi di scorrazzare nel web senza alcuna censura. Per la copertina di
No Love Deep Web decidono di esagerare: c’è il pene eretto di Zach Hill in primo piano, con la scritta sopra a pennarello “No Love Deep Web”. L’immagine, che starebbe benissimo sul succitato eFuckt, è accompagnata nel loro sito da questa dicitura: “US law states you must be 18 years of age to view graphic sexual material. We consider this art”.
La macchina dei
meme impazzisce, e le parodie e riletture non si contano. Al pisello saranno sostituiti, tra le altre cose, banane, piedi, Pokemon, panini e bombe nucleari. 
Violentemente rumoroso, No Love Deep Web (2012) ha perso l’efficacia di The Money Store ma ne conserva l’intenzione. Il mix di suoni non è granché cambiato, ma i brani funzionano meno, con diverse lungaggini e un certo deterioramento dei testi. Già l’iniziale “Come Up And Get Me” assorda e stordisce l’ascoltatore senza trovare un ritornello o un momento davvero da ricordare.
Non mancano comunque canzoni che potrebbero provenire dal precedente capolavoro o che ne espandono il linguaggio: il balbettio
noise e la melodia spettrale di “Lil Boy”, come i Prodigy passati al tritatutto; l’ossessiva e claustrofobica “No Love”, con la batteria picchiata ferocemente; la frenetica “World Of Dogs”, assaltata dai sub-bass e la ripetizione della frase “It’s all suicide”; l’incubo industrial-hip-hop di “Lock Your Doors”; i droni asfissianti di “Deep Web”. Funziona però come un’aggiunta a quanto già ascoltato in The Money Store, senza replicare quella sorpresa e quell’equilibrio. I sei minuti conclusivi di “Artificial Death In The West”, con synth cosmici che evocano un paesaggio alieno o futuristico, suggeriscono un esaurimento delle idee e un possibile cambio di sound, ma, tolta la foga e il tipico mix di ironia e ultraviolenza, i Death Grips sembrano assai depotenziati.

Insostenibile hype: Government Plates, The Powers That B e lo scioglimento

dgcorpo2.Nati come sensazione sul web, i Death Grips si rilevano instabili e imprevedibili. Usano dei brani di Bjork per dei remix, pubblicano molto materiale su YouTube, disattendono concerti o propongono performance che irridono il loro stesso pubblico. Al Loolapalooza, uno dei più famosi festival musicali statunitensi, allestiscono il palco con gli strumenti e proiettano una lettera di un aspirante suicida ma non si presentano. Affermano, poi, che l’allestimento stesso era la performance. Cercano di mantenere alta l’attenzione su di loro, ma il web è spietato e richiede sempre maggiori provocazioni. Pubblicare nuova musica è chiaramente una necessità, perché se aspettassero qualche anno, lo stesso pubblico che li ha elevati a miti della meme culture potrebbe disconoscerli o, semplicemente, ignorarli.

Un rumore di vetri rotti introduce Government Plates (2013) e la distortissima “You Might Think He Loves You For Your Money But I Know What He Really Loves You For It’s Your Brand New Leopard Skin Pillbox Hat”, un cazzotto in pieno viso che travolge l’ascoltatore e lo fa subito sentire a casa: i Death Grips sono tornati con il loro approccio terrorizzante, imprevedibile e sregolato. È un terzo album disorientante, incoerente, con brani dove i suoni si accumulano, si sovrappongono, si ripetono come e più delle parole; i testi sono ormai ridotti a urla, anti-slogan, barre ossessive. Capita così che “Anne Bonny” sia più brani in uno, tra synth da fantascienza d’epoca, esplosioni cacofoniche e percussioni deformate fino a essere quasi irriconoscibili.
È un approccio caotico, che aggiunge suoni da
videogame, laser, battiti techno (“This Is Violence Now (Don’t Get Me Wrong)”), manipolazioni digitali che suonano come terribili allucinazioni (“Birds”), filastrocche ripetitive e comiche a volume nocivo (“Feels Like A Wheel”), arpeggiatori impazziti (“Big House”), droni cacofonici (“Government Plates”) e uno sfibrante, lunghissimo finale con la techno assordante di “Whatever I Want (Fuck Who’s Watching)”.
Difficile immaginare qualcosa di più sguaiato, disordinato, caotico e grezzo di così: ogni brano è un accumulo di idee alla rinfusa, montate insieme senza curarsi della coerenza e, ovviamente, senza alcun rispetto per i timpani dell’ascoltatore. È uno degli album di musica più
brutta che si possa immaginare, ma non è necessariamente una cosa negativa. Le idee di The Money Store avevano il pregio di essere state incanalate in brani tutto sommato coerenti, per quanto eccentrici e violenti, mentre Government Plates li propone in modo assai più disordinato e disorientante.

Dopo la Epic ci prova la Warp, che li mette sotto contratto e segue lo sviluppo del doppio album The Powers That B (2014-2015), diviso in due parti: Niggas On The Moon (2014) e Jenny Death (2015). La prima parte è la musica più confusa e dispersiva della loro carriera, un accatastarsi di idee, più che mai legate alla musica elettronica, dove il rap è marginale e l’idea di ritmo è frustrata da continui cambiamenti. Ci sono sempre delle provocazioni, per esempio nel titolo e nel sample di “Have A Sad Cum BB”, ma tutto è vomitato sull’ascoltatore senza alcun riguardo. È sicuramente necessario, per loro, mantenere vivo l’hype, anche spiazzando le aspettative del pubblico, ma all’ascolto i trucchetti si rivelano per quel che sono. Anche l’idea di usare campionamenti di Bjork in ogni brano è poco più di una trovata eccentrica.
La seconda parte è già una faccenda differente. Più energica e frenetica, come chiarisce subito “I Break Mirrors With My Face In The United States”, continua a disperdere le energie ma comunque porta all’ascoltatore un assalto devastante di rap-rock-metal urlato ed elettronica assordante e malsana (“Inanimate Sensation”, “Turned Off”, “The Powers That B”, “Beyond Alice”). Indugiano forse troppo a torturare i timpani (“Why A Bitch Gotta Lie”) e perdono ogni tanto la spinta propulsiva e creativa, ma sono ancora riconoscibili e spaventosi quando trovano un qualche equilibrio, quel tanto che basta per trasformare uno spasmo in un pugno. Riescono ad ascendere fino al lirico e l’epico, attraverso il rumore e le distorsioni, con “Centuries Of Damn” e “On GP”: un inaspettato colpo di classe di un trio di teppisti.
Nel formato definitivo
The Powers That B è clamorosamente prolisso e dispersivo, tanto da poter diventare un caso di studio sugli effetti negativi dell’abbassamento dei costi di produzione e promo-commercializzazione della musica liquida. Il grande dito medio che i Death Grips sfoggiano contro l’industria musicale non giustifica lo spreco del tempo degli ascoltatori, che forse avrebbero giovato di un dimezzamento del minutaggio finale di 80 minuti.

Nello stesso periodo, e completamente a sorpresa, comunicano lo scioglimento della band. Lo fanno attraverso un post su Facebook e un’immagine che rinforza la loro dimensione di gruppo frutto della web culture:

We are now at our best and so Death Grips is over. We have officially stopped. All currently scheduled live dates are canceled. Our upcoming double album The Powers That B will still be delivered worldwide later this year via Harvest/Third Worlds Records. Death Grips was and always has been a conceptual art exhibition anchored by sound and vision. Above and beyond a ‘band’. To our truest fans, please stay legend.

Non sembra così fuori luogo la pubblicazione dello strumentale Fashion Week (2015), una release che pare semplicemente un modo per dare ai fan tutto quello che rimane nei cassetti. Le composizioni virano verso un’elettronica con intensità big beat e frenesie techno, venata di ricordi electro e contaminazioni industrial. Non è nulla che attirerebbe molta attenzione, senza il nome Death Grips in copertina. La band la presenta come una colonna sonora, ma ovviamente manca il contenuto video associato.

Nel 2016 pubblicano anche un Ep, Interview 2016, che cristallizza un’altra delle loro provocazioni. È una raccolta di strumentali che fungeva da unico contenuto di una sedicente video-intervista con Matthew Hoffman che conteneva come audio proprio questa musica. È un sestetto di brani assai più coerente e compatto di Fashion Week, una tensiva miscela di electro distorta e ossessiva.
Hill e Morini avviano persino un altro progetto. I Death Grips, se non proprio morti, sembrano quantomeno agonizzanti.

Post mortem: Bottomless Pit e Year Of The Snitch

La fase creativa dei Death Grips è apparentemente esaurita quando risorgono, in modo come al solito disordinato e imprevedibile. Il quinto album, Bottomless Pit (2016), ritrova l’intensità dei tempi migliori, anzi eccede in violenza per sopperire a una certa mancanza di idee davvero nuove. La cannonata thrash-metal-rap “Giving Bad People Good Ideas” e l’assordante stoner-metal-rap-rock “Hot Head” sono esempi di un caotico e assordante crossover che si riferisce spesso in modo esplicito all’estetica del rock più duro e aggressivo, con una puntata death-metal in “Ring A Bell”.
Tolta la corazza, però, i brani non sono esattamente indimenticabili (“Eh”, “Trash”) e le soluzioni sono, per quanto spettacolari nel susseguirsi di esplosioni e deformazioni, tutto sommato risapute (“Bubbles Buried In This Jungle”, “Houdini”, “Three Bedrooms In A Good Neighborhood”). Si apprezzano alcune composizioni più destrutturate in “BB Poison” o la disturbante “80808”, con motivetti elettronici e voci demoniache, nonché l’esaltante rock’n’roll assordante da Boris di “Bottomless Pit”.
Sarebbe ingeneroso bollarlo come un album mediocre,
Bottomless Pit è piuttosto una conferma che non comporta grandi sorprese. Molto più focalizzato di The Powers That B, si ascolta tutto d’un fiato senza dover ripensare granché alla propria idea di cosa siano e suonino i Death Grips. Se un tempo hanno segnato un ibrido di stili imprevedibile e peculiare, questi nuovi brani sembrano semplicemente estendere un po’ il campo d’azione, senza sconvolgimenti.

Ad alzare la posta è semmai il successivo Ep Steroids (Crouching Tiger Hidden Gabber Megamix) (2017), un unico brano di 22 minuti e mezzo dove i Death Grips tormentano i timpani dell’ascoltatore come facevano ai tempi di Exmilitary, ma con un assortimento di soluzioni che è frutto dell’esperienza accumulata negli anni. Più che MC Ride, a segnare un’evoluzione rispetto ai primissimi tempi è la produzione, ora più affollata e cangiante, con un lavoro sui ritmi martellante ma anche assai creativo, elementi elettronici molto più eterogenei e le intromissioni gabber che aggiungono un’esaltante intensità al tutto. Annunciato a sorpresa su Facebook, questo Ep anticipa di un anno abbondante il sesto album Year Of The Snitch (2018), con il quale i Death Grips ritornano simbolicamente al formato, libero e imprevedibile, del primo mixtape. In qualche modo si reinventano, in una veste più divertita e meno rabbiosa ma comunque ostica e violenta.
Gli
scratch galattici di “Death Grips Is Online” prendono l’ethos dei rave per sprofondarlo in un inferno cacofonico, mentre i riferimenti hard’n’heavy di “Bottomless Paint” esplodono nello stoner-metal saturo di distorsioni di “Black Paint”, come i Melvins che si uniscono ai Kyuss. A questi brani cupi si unisce però un balletto robotico scoordinato come “Linda’s In Custody”, con frammenti pianistici, o l’esilarante “The Horn Section”, strumentale febbricitante che merita un posto nelle musiche assurde del periodo. Il grindcore di “Shitshow” sembra uno degli spasmi dei primi Napalm Death, ma viene inaspettatamente inghiottito da un gorgo galattico di riverberi, ed è quasi come se i Devo si fossero dati al metal estremo per l’esilarante effetto comico del sovrapporsi dei vari elementi, non ultima la voce femminile che si ostina a ripetere il titolo.
Stupiscono anche chi conosce l’intera discografia quando costruiscono un funk-prog-rock in “Dilemma”, un
mix di blaxploitation e i poliziotteschi tanto cari ai nostri Calibro 35, o quando fanno il verso ai Kraftwerk in “Little Richard” o ai Pere Ubu misti Flipper nel post-punk assordante e cabarettistico di “The Fear”.
Chiudono l’album come ci si aspetta da un gruppo come loro: in “Disappointed”, con un ritornello demenziale, prendono in giro proprio il pubblico che critica la loro musica, rivendicando la libertà creativa.

Nel 2019 arriva il loro rumorossimo canto del cigno Gmail And The Restraining Orders, un collage furiosamente intenso di oltre 28 minuti condensato in un unico brano. È dominato dalla batteria di Zach Hill, lanciata a velocità insostenibile in un mare di voci e campionamenti riverberati e deformati fino alla totale saturazione dei timpani dell’ascoltatore. Difficile immaginare qualcosa di più rumoroso e caotico, tanto che ritornano di nuovo alla mente i Black Flag che hanno campionato molti anni prima: si tratta di quasi mezz’ora di musica furiosa, che riprende lo spirito più oltranzista per adattarlo alle tecniche digitali. Dopo pochi minuti il cervello è talmente saturato che l’effetto è allucinante, una nauseante iperstimolazione dei sensi. In qualche modo è come se i Death Grips fossero andati a schiantarsi in modo spettacolare, e questa è la rappresentazione espressionista di quello stesso catastrofico impatto.

Le ulteriori pubblicazioni che seguono sono poco più che curiosità. Anche l’attività live successiva a queste ultime pubblicazioni non cambia granché della loro carriera. L’8 febbraio 2025 un messaggio trapela dal web: sembra che si siano sciolti definitivamente ma, aggiunge Morin, nessuno può prevedere cosa succederà al gruppo. La notizia non è stata confermata dalla band, al solito prevedibile nella sua imprevedibilità.




Source link

articoli Correlati

Back to top button
Translate »