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Dazi, Berlino si smarca e tratta da sola

Mentre l’Unione europea prova a mostrarsi compatta nella partita commerciale più delicata degli ultimi anni, la Germania muove in solitaria. Lars Klingbeil, ministro delle Finanze tedesco, sarà domani a Washington per incontrare il suo omologo statunitense Scott Bessent. È la sua prima visita ufficiale negli Stati Uniti, ma il contesto non lascia spazio a formalità. In agenda i temi saranno “mantenimento e ampliamento del partenariato transatlantico, cooperazione in forum multilaterali, questioni e sfide relative ai dazi”, ha reso noto il ministero delle Finanze tedesco.

Un segnale chiaro: il principale motore manifatturiero d’Europa tenta la via bilaterale per mitigare l’impatto della nuova stagione protezionista voluta dal presidente Trump. E lo fa proprio mentre Bruxelles, con Ursula von der Leyen in prima linea, cerca di portare avanti trattative ulteriori con l’amministrazione Usa. “I dazi danneggiano l’economia su entrambe le sponde dell’Atlantico: abbiamo bisogno di dazi bassi e mercati aperti”, ha dichiarato Klingbeil, confermando il sostegno alla via negoziale ma con un avvertimento implicito: l’Europa, così com’è, non basta a proteggere i suoi campioni industriali.

I timori sono concreti. Secondo le stime dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, l’impatto per l’Italia sarà di 14-15 miliardi di euro l’anno, una cifra analoga al costo previsto per il ponte sullo Stretto di Messina. Una perdita netta per l’export, in particolare nei settori a più alto valore aggiunto. “Tutto il quadro dell’accordo non è chiaro, viviamo in una situazione di incertezza che, ovviamente, genera preoccupazione”, ha dichiarato il presidente di Confindustria Emanuele Orsini. “Servono soluzioni e compensazioni”, ha proseguito aggiungendo che “non possiamo sprecare soldi pubblici, serve un’analisi approfondita, settore per settore, e l’Europa deve mettere in campo un piano”. Segnali d’allarme che giustificano la presa di posizione del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. “Bisogna lavorare perché dal quadro generale che prevede dazi al 15% si scenda poi nei dettagli”, ha detto ieri precisando che “è lì che dovremmo difendere con le unghie e con i denti i prodotti italiani”.

Sul fronte farmaceutico uno dei dossier più caldi la situazione è ancora più fluida. Il presidente Trump aveva inizialmente rassicurato sull’esclusione dei medicinali dal pacchetto di dazi. Ma un alto funzionario europeo ha poi chiarito che anche i farmaci importati dall’Ue “saranno al 15%”, rientrando nelle indagini aperte dagli Stati Uniti secondo la Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962 e riguardanti proprio la farmaceutica e i semiconduttori. La misura scatterebbe il 7 agosto. Il condizionale è d’obbligo perché l’aggravio potrebbe scattare successivamente, alla fine dell’inchiesta. Anche in quel caso, il dazio, osservano le fonti, “non potrà superare il 15%, come previsto dall’intesa”. Nel frattempo, però, la grande industria si muove: molte multinazionali stanno attivando piani di reshoring e investendo nella costruzione di impianti produttivi sul suolo americano. Magra consolazione, secondo Bruxelles, è l’esenzione parziale per alcuni farmaci generici. La posta in gioco per l’Italia è altissima. Il nostro Paese esporta verso gli Stati Uniti farmaci per quasi 6 miliardi di euro l’anno. “È un asset strategico per l’Italia”, ha ribadito il miniostro della Salute, Orazio Schillaci.

Anche negli Stati Uniti, tuttavia, iniziano a emergere tensioni. La National Restaurant Association, l’associazione dei ristoratori, ha lanciato l’allarme. “I dazi potrebbero aumentare il costo di piatti popolari come caffè e hamburger”, ha avvertito la presidente Michelle Korsmo, temendo la crisi di “un settore che sostiene milioni di posti di lavoro”.


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