Dal palco ai droni: anche i Godspeed You! Black Emperor abbandonano Spotify

Anche i Godspeed You! Black Emperor hanno deciso di abbandonare Spotify, Apple e le altre grandi compagnie di streaming audio. In un mondo iper-connesso, in cui la presenza online è diventata imprescindibile, scomparire del tutto sarebbe forse impossibile – e persino controproducente. Ma la band canadese ha scelto di restare su Bandcamp, uno spazio virtuale che, pur con i suoi limiti, garantisce maggiore vicinanza agli artisti, sia sul piano economico, sia su quello etico. La società che ne detiene la proprietà, Songtradr, lascia, infatti, pieno controllo dei diritti e, almeno per ora, non ha venduto la propria anima al miglior offerente – come invece ha fatto Daniel Ek, CEO di Spotify, consegnandola, purtroppo, al cavallo rosso della guerra e al suo cavaliere con la spada sguainata, pronto a versare sempre altro sangue.
Non è eticamente accettabile che un servizio nato per sostenere la musica – linguaggio di condivisione, di inclusione, di pace e di solidarietà – investa 600 milioni di dollari nella ricerca militare, contribuendo alla realizzazione di droni, cioè di strumenti di morte, strumenti destinati anche ad ammazzare civili innocenti, oltre che a diffondere terrore, a distruggere case, ospedali, scuole, intere comunità. Se il fondo Prima Materia, che sostiene Spotify, percorre la strada della guerra, allora è doveroso che chi crede nella vita e nella musica come forza pacifica prenda le distanze da questo sistema.
Alcuni artisti lo hanno già fatto: i King Gizzard & The Lizard Wizard, i Deerhoof, e ora i Godspeed You! Black Emperor, da sempre sensibili alla causa palestinese e critici verso le politiche oppressive e repressive del governo israeliano. Ma non basta. Il passo deve essere compiuto anche da chi, con le proprie canzoni, le proprie parole, le proprie testimonianze, le proprie prese di posizione pubbliche e i propri concerti, ha immaginato e sostenuto un mondo più giusto: i Massive Attack, i Fontaines D.C., Roger Waters, Damon Albarn, Brian Eno e tanti altri. Altrimenti, il pericolo è che tutto diventi solamente l’ennesima truffa del rock’n’roll.
La questione è molto semplice: è davvero possibile continuare a denunciare le guerre, mentre si resta legati a una piattaforma che investe in armi di distruzione? Non bisognerebbe spezzare ogni legame? Non sarebbe ora di impedire a Daniel Ek e a quelli come lui di arricchirsi sfruttando non solamente la musica degli artisti, ma anche l’amore e la passione dei loro fan?
E qui la domanda si rivolge anche a noi ascoltatori, compreso il sottoscritto. Perché non disdiciamo i nostri abbonamenti? Per inerzia? Per abitudine? Per la falsa convinzione che cambiare sia sempre scomodo e complicato? Eppure, a differenza di chi vive sotto i bombardamenti o di chi ha perso la vita a causa di quelle stesse armi finanziate dai miliardari della Silicon Valley e non solo, noi abbiamo ancora la possibilità di scegliere.
I tempi del cambiamento sono maturi. Alcuni musicisti ci hanno mostrato che si può fare. È il momento di suonare davvero il nostro “outro” da queste piattaforme insanguinate e colluse, e di iniziare a smantellare un sistema che ci vuole servi sciocchi del digitale. Solamente con gesti concreti e consapevoli, infatti, possiamo invertire i rapporti di forza: le etichette discografiche, le piattaforme di streaming, i grandi organizzatori di eventi e di festival debbono essere al nostro servizio, non viceversa. E questo vale non solo per la musica, ma anche per la politica, per i governi, per i partiti, per le istituzioni.
Il cambiamento comincia da qui, e dipende da noi. Ne saremo capaci? O continueremo a contare i morti dei vari conflitti che sconvolgono il pianeta?
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