Da Pamela Genini a Giordana Di Stefano: quando anche il racconto dei femminicidi diventa violenza
Tra le voci che da anni lottano per cambiare questa narrazione c’è Vera Squatrito, madre di Giordana Di Stefano, uccisa con 48 coltellate a vent’anni, dal suo ex compagno nel 2015. Dopo dieci anni, Vera ha trovato le parole per raccontare sua figlia Giordana in un libro, in uscita il 30 ottobre per Algra Editore, già in preordine sulle principali piattaforme. «Ho aspettato dieci anni prima di scriverlo perché avevo paura», racconta. «Non sapevo da dove cominciare, né se sarei riuscita a raccontare la storia di mia figlia Giordana, uccisa con 48 coltellate. Era difficile immaginare di trovare le parole giuste per raccontare il suo cammino, i suoi sogni, le sue speranze, senza che il dolore della sua atroce morte innaturale mi travolgesse completamente. L’idea è nata rileggendo la sua vita, passo dopo passo. Ho capito che non dovevo partire dalla fine, ma dall’inizio. Ripercorrere i suoi vent’anni mi ha aiutata a trasformare una ferita profonda in qualcosa che continua a vivere: un ramo di fiori che cresce».
Un’immagine che Giordana aveva tatuato sul suo corpo. «Quel ramo lo abbiamo tatuato insieme, 5 mesi prima della sua morte, nel giorno del suo compleanno. Lo aveva scelto lei: un ramo di fiori con una farfalla che prende il volo. Oggi è il simbolo della sua libertà, e di una memoria che non smetterà mai di fiorire». Il libro nasce anche dal bisogno di restituire voce a una ragazza che prima di essere una vittima di femminicidio è una persona con sogni, passioni, desideri. Di recente, Vera Squatrito ha commentato la decisione di Filippo Turetta, assassino di Giulia Cecchettin, di rinunciare all’appello: «Un gesto che, in apparenza, potrebbe sembrare un’assunzione di responsabilità, un primo passo verso la presa di coscienza del male commesso. Ma non possiamo evitare di porci una domanda scomoda: è davvero un atto di pentimento o è l’inizio di una strategia per ottenere i benefici previsti dalla legge? Perché da carnefice si tenta ora di assumere il volto del detenuto modello, pronto a intraprendere un percorso di “rieducazione”. In questo modo, come spesso accade, si aprirà la possibilità di accedere alla giustizia riparativa, ai permessi premio, e a tutto quel sistema che, sotto il nome di reinserimento, rischia di dimenticare troppo in fretta il valore della vita tolta».
Non è un caso isolato. «L’assassino di Giordana Di Stefano», continua Vera Squatrito, «ha scontato dieci anni di carcere. Finora non ha ottenuto permessi, che io sappia, non ne sono certa e in ogni caso non ho il diritto di esserne informata ed è per questo che mi guardo le spalle ogni istante della giornata, ma potrà usufruirne, proprio perché la legge glielo consente. Dieci anni: un tempo che sembra una formalità per chi ha tolto una vita, mentre per le famiglie delle vittime è un dolore che non si prescrive mai. Chi tutela davvero le vittime? Chi protegge i loro diritti, chi garantisce giustizia agli orfani di femminicidio, che crescono con il peso di una tragedia e con lo Stato che spesso si volta dall’altra parte? Viviamo in un sistema dove la pena certa è un miraggio, dove anche gli assassini possono sperare in una nuova vita, mentre le loro vittime non avranno mai più voce. Non si tratta di giustizia, ma di dimenticanza legalizzata. E uno Stato che dimentica le sue vittime, non può definirsi davvero giusto».
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