da dove arrivano i pomodori?
Prodotti a base di pomodori cinesi spacciati per italiani: la notizia non vi suonerà nuova, ma il caso si riapre con nuovi preoccupanti elementi.
Da oltremanica arriva un’inchiesta preoccupante su più fronti: è lo scandalo alimentare sollevato dalla BBC, che indaga su numerosi prodotti a base di pomodoro venduti nel Regno Unito, in Germania e negli Stati Uniti con etichette ingannevoli e verosimilmente frutto di lavoro forzato. Nel vortice del caso finisce anche l’azienda toscana Petti, già indagata per frode e sottoposta a sequestro nel 2021. L’inchiesta dei colleghi inglesi si basa su test in laboratorio, resoconti di vittime di lavoro forzato e documenti che testimoniano una realtà che purtroppo non sorprende.
L’inchiesta sui pomodori
L’indagine pubblicata un paio di giorni fa sui prodotti a base di pomodoro (principalmente passate o concentrati) venduti in Europa e Stati Uniti collega più pezzi di un unico puzzle per presentarci un quadro completo. È una storia di etichette ingannevoli, frode alimentare e – come se non bastasse – sfruttamento umano. Tutto parte da tubetti di concentrato disponibili sugli scaffagli della GDO nei tre Paesi menzionati poc’anzi. Sui packaging campeggiano le scritte “passata di pomodoro italiano” e formulazioni simili; ma molti di quei pomodori sono verosimilmente cinesi.
La conferma arriva dai test condotti grazie al supporto di Source Certain, azienda australiana specializzata nel controllo dell’origine dei prodotti. Basandosi su un metodo di confronto, la società mette fianco a fianco i pomodori italiani con quelli cinesi, analizzandone le tracce di elementi assorbiti dalle rocce o dall’acqua locali. I profili evidenziati indicano così con alta probabilità la reale provenienza del frutto rosso: risulta che un totale di 17 passate/concentrati su 64 analizzati contiene pomodori cinesi.
Il coinvolgimento di Petti
E qui arriva il bello. Di questi 17, più della metà (dieci, per l’esattezza) arrivano dall’azienda Petti, che tre anni fa era stata indagata e sottoposta a sequestro per le stesse ragioni. Il caso era poi stato chiuso, ma torna ora a far parlare di sé. Un inviato sotto copertura della BBC a contatto con Italian Food, parte del gruppo Petti, ha chiesto all’omonimo manager Pasquale se la sua azienda usasse pomodori cinesi. La riposta potete immaginarla. “Sì. In Europa nessuno vuole pomodori cinesi, ma se per te va bene, troveremo un modo per offrirti il miglior prezzo possibile, anche usando pomodori cinesi”.
Lo sfruttamento dei lavoratori
Ma non è tutto, perché oltre all’inganno nei confronti dei consumatori (pomodori spacciati per 100% italiani, ma provenienti in realtà da un altro continente), si insinua il dubbio sulle condizioni di lavoro di chi in Cina questi pomodori li raccoglie. Nel mega-Stato asiatico (uno dei principali produttori di pummarola al mondo), la raccolta dell’ortaggio avviene principalmente nella regione dello Xinjiang. Più volte è stata denunciata l’esistenza di cosiddetti “campi di rieducazione” in questa area del mondo, dove minoranze come quella uigura o musulmana sono costrette a lavori forzati e tortura. Così si collegano tutti i puntini.
La riposta dei diretti interessati
Cosa hanno da dire i supermercati coinvolti nello scandalo? Molti confutano la tesi dei pomodori cinesi contestando la metodologia di indagine applicata o affermando che le loro controindagini in laboratorio hanno fornito risultati contradditori rispetto a quelli di Source Certain. Altri, come Tesco, hanno sospeso la fornitura, mentre Lidl ha effettivamente ammesso di aver venduto in Germania per un breve periodo (a causa di problemi nella catena di fornitura) prodotti a base di pomodori cinesi che, sembrerebbe, arrivavano proprio dalla regione incriminata. Petti, dal canto suo, promette che in futuro non importerà più prodotti a base di pomodoro dalla Cina e che migliorerà le procedure di controllo delle aziende fornitrici in termini di diritti umani e dei lavoratori.
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