Società

Cristina Fogazzi: «In passato sono stata sguaiata, come mi piace definirmi. E anche litigiosa. Non capivo perché mi attaccavano. Poi ho capito che ascoltare serve. Sempre»

Questo articolo è pubblicato sul numero 28-29 di Vanity Fair in edicola fino al 15 luglio 2025.

Dieci anni di creme, di dirette Instagram, di polemiche, di successi, di luci liquide, bende saline e oli densi. Veralab, il marchio di prodotti di cura personale fondato da Cristina Fogazzi, in arte l’Estetista Cinica, compie un decennio e festeggia 144 dipendenti e più di 80 milioni di euro di fatturato. «Eppure c’è chi ancora mi ritiene una miracolata dei social», sottolinea lei. 51 anni appena compiuti, la incontriamo a Milano nei nuovi uffici della sede di Veralab. Nel 2009 ha aperto un centro estetico. Nel 2015 ha lanciato la sua linea di prodotti. La strada fatta fino a qui è lunga e piena di avvenimenti. A riguardo, lei ha dichiarato: «Sono diventata grande e anche vecchia».

La mia prima domanda è: quando è diventata grande e quando si è sentita vecchia?

«Grande negli ultimi anni. Vecchia quando ho capito che certe dinamiche non cambiano mai. Posso avere tutto il successo che vuole ma ci sarà sempre chi mi vorrà riportare indietro, a quando andavo al liceo classico e una compagna di classe mi chiedeva: “Come si chiama quella cosa che prendi per venire a scuola? Corriera?”».

Ha sperimentato il classismo. Perché pensa che continuino a esercitarlo su di lei?

«Perché sono donna, perché mi chiamo “estetista”, perché certe dinamiche di gate keeping sono dure a cambiare. Ma le pare che uno per insultarmi mi debba scrivere parvenu su Instagram? Ma dimmi brutta, digita cessa… Vede, mi sento vecchia ma potrei dire disincantata, perché mi sembra di tornare indietro a quando ero ragazzina e mi veniva fatta pesare la mia provenienza sociale. Uno dice: sono passati più di trent’anni, viviamo nelle città liquide. E invece siamo ancora al punto che piuttosto di riconoscerti un merito, continuano a darti della cafona».

Ha più volte detto che nella vita conta sapere chi sei e che cosa vuoi. Lei oggi chi è e che cosa vuole?

«Sono sempre io, sempre la stessa. E voglio sempre la stessa cosa: essere una persona indipendente. Essermi potuta riscattare dalla mia condizione e averlo fatto secondo le mie regole è stata la conquista più grande, quello che desideravo e desidero di più. Però una cosa me la faccia dire».

Prego…

«Quando lavoravo come dipendente, gli imprenditori mi dicevano: eh ma com’è difficile fare impresa in Italia! Meglio essere dipendenti. Se un’azienda pagasse tutte le tasse che deve pagare fallirebbe. La sa una cosa?».

Mi dica.

«Sono tutte balle. Questa cultura rovina l’Italia, i lavoratori dipendenti e chi vuole fare impresa nel modo più giusto. Quando avevo sedici anni, mia madre venne assunta con un contratto part-time mentre lavorava tutto il giorno con una lettera di licenziamento in bianco firmata da lei in modo che potessero mandarla via quando volevano. Per me era la normalità. Come normalità è leggere che certe categorie cercano giovani lavoratori ma non li trovano perché questi ultimi “non vorrebbero” fare fatica. Io dico che bisogna tornare a parlare di salario minimo e di coscienza di classe».

È favorevole al salario minimo?

«Certo che sì. E in fatto di coscienza di classe, trovo che sia inutile fare le crociate sui social se poi non si va a votare al referendum sul lavoro. Ma lo volete capire che se i ricchi non pagano le tasse a farne le spese sono quelli che ricchi non sono? Poi si sorprendono delle polemiche per il matrimonio di Jeff Bezos a Venezia. Ci vuole più coscienza di classe».

Parla come se fosse in campagna elettorale. Ha mai pensato di dedicarsi alla politica?

«No. Perché non sono proprio tagliata per quel tipo di mestiere».

Torniamo alla sua azienda. In questi dieci anni, qual è stata la cosa più difficile da gestire?

«Gli addii. Quelli e quelle che ti lasciano. Io proprio non ce la faccio. La prendo sempre sul personale. Lo so, non è giusto, ma è più forte di me. Io provo sempre a costruire l’ambiente migliore e poi, quando uno se ne va, la vivo male».

A chi deve dire grazie?

«Alla psicologa che mi ha avuto in cura dai sedici anni in poi: si chiama Elisabetta Polotti ed è come se mi avesse allevata. Alle amiche di sempre: Elena, Laura, Celestina e Isabella. A Cathy La Torre, che mi è stata molto vicina nella mia esposizione mediatica. A Mauro Orso, che mi ha aiutata a orientarmi in certi ambiti. E a Paolo Stella, il migliore pr per gli inizi di Veralab. Gli amici forse sono la mia vera famiglia, infatti li chiamo tutti i giorni. Vede, nella vita di una donna arriva un momento in cui ti dici: “Forse devo fare dei figli perché tra dieci anni me ne pentirò”. Bene, io non mi sono pentita di non aver fatto figli. E se devo pensare ai veri attimi di felicità, allora penso a quando sono in barca, a chiacchierare, davanti a un tramonto e un bicchiere di vino, con i miei amici».


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