Crispi e il primo intervento di riforma dello Stato unitario
Un giorno io domandava a Crispi: Siete voi Mazziniano? – No, mi rispose egli. – Siete voi Garibaldino? – Neppure, ei replicò. – E chi siete voi dunque? – Io sono Crispi». E poi: «io non conosceva questo Crispi tout court, questo Crispi inedito, che brilla da sé e non riflette né Mazzini né Garibaldi». È il 1862, e così scrive Ferdinando Petruccelli della Gattina nel suo celebre I moribondi del Palazzo Carignano. L’«età crispina» è ancora lontana, ma Petruccelli avverte già l’energia dello statista siciliano, che diverrà poi il primo Presidente del Consiglio meridionale: «Allorquando egli si alza per parlare, si direbbe che sia per tirar fuori di tasca un paio di revolvers».
Coi suoi modi decisi (a Marsala scese per primo a terra insieme ai Mille, ed entrò a Palermo pistola in pugno) Crispi dotò il Paese di un corpus normativo – «grandi leggi-monumento», le definisce Guido Melis – con cui riuscì a condurre nella modernità l’Italia “piemontesizzata” dall’unificazione. Realizzò così il suo progetto volto a un «discentramento» amministrativo che, creando la azione, nello stesso tempo rafforzasse l’autorità dello Stato. Cospiratore ed esule, avvolto dal «fascino misterioso dei Grandi» (come gli scriverà Vittorio Emanuele Orlando), la sua formazione giuridica lo sosterrà nell’enorme sforzo riformatore conseguito attraverso percorsi istituzionali di particolare significato anche nello scenario politico attuale. È proprio questa la linea dell’ultimo libro di Gaetano Armao, Francesco Crispi e le riforme amministrative. Il primo intervento di riforma strutturale dello Stato unitario, che individua nel decennio crispino (1887-1896), e ancor prima nella straordinaria esperienza del costituzionalismo siciliano che va dal «decennio inglese» (1806-1815) ai moti del ’48, i temi seminali dell’architettura politico-istituzionale odierna.
Fra questi, anzitutto il perdurare di un «partito della maggioranza»: teorizzato da Francesco Bonini come mutevole «rete di solidarietà per la gestione del potere», «organizzazione di interessi» la quale agisce da «struttura profonda di coesione» che depotenzia il modello-partito, sostituito da relazioni personali fra esponenti governativo-parlamentari, della burocrazia e del notabilato aggrumate intorno al leader del momento. Crispi ne è un simbolo, che si riflette oggi sugli equilibri precari fra premier, deep state e istanze territoriali. Allo statista siciliano si deve la prima grande riforma strutturale nelle istituzioni italiane, la quale – sottolinea Armao – fu molto più di una seconda unificazione: mentre le leggi del 1860 avevano trasfuso l’ordinamento sabaudo nella legislazione del nuovo Stato, il modello crispino volle «aprire nuovi spazi all’intervento della pubblica amministrazione a partire dalle politiche sociali», restando comunque «correlato ad una leadership chiara ed individuabile»: un assetto «che inciderà profondamente sulla morfologia dell’amministrazione statale e di quella locale e che, in taluni casi, resterà in vigore ben oltre la vita politica del suo artefice». Sensibile anche al tema della tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dell’amministrazione pubblica (si deve a lui la IV Sezione del Consiglio di Stato, che inaugura il modello ancora adesso di maggior successo fra i nostri apparati di giustizia), Crispi immette nelle istituzioni la cultura e la “tradizione” dello Stato in un Paese che – nella sua parte centro-settentrionale – aveva storicamente conosciuto una strutturazione su base invece comunale. S’inserisce in questo quadro un ultimo tentativo innovatore, quello più ardito. È il 1894 quando Crispi mette mano al mosaico territoriale italiano con un «Progetto di circoscrizione» su base regionale redatto da Luigi Bodio, il grande statistico. Non sortirà però nessun esito, a causa dei troppi interessi consolidati che si opposero.
Lo statista concluderà poco dopo la propria storia politica con la disfatta di Adua e la caduta del suo quarto governo. Restano intatti i nodi che cercò invano di sciogliere, come l’eterna tensione fra centralismo e autonomismo. Armao ne evidenzia molto bene l’attualità, a cinquant’anni da quel 1975 che diede inizio all’esperienza regionale e nel pieno di un aspro contrasto sui limiti del regionalismo differenziato.
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