Società

Crepet: “Chi educa? Il trap? Non è musica, ma rumore. Messaggi sbagliati. L’IA? Si sta mangiando tutto, a partire dai lavori creativi”

Beh, i trapper non parlano certo di amore e speranza nelle loro canzoni. Propongono un modello di vita fondato su soldi, auto di lusso, orologi costosi. E chi non può permettersi queste cose si sente frustrato. E la frustrazione porta alla violenza. Non è musica: è rumore. E fa danni”. Così si apre l’intervista pubblicata da Il Gazzettino, affidata a una voce che interpreta in modo netto il malessere giovanile e il disorientamento culturale degli adulti.

Il discorso non si limita a un giudizio musicale. Al contrario, usa la trap come chiave per interrogare l’intero sistema di modelli a cui i giovani sono esposti, in una società che sembra aver smarrito gli strumenti per guidarli.

I simboli del successo e il peso dell’esclusione

Le immagini che ricorrono nella trap – ricchezza immediata, visibilità, dominio – non sono semplici accessori estetici. Sono codici che funzionano da passaporto simbolico: o li possiedi, o resti fuori. L’autore dell’intervista non si limita a contestare i contenuti: individua nel sistema stesso di valori una trappola. Chi non riesce ad aderirvi interiorizza il fallimento. E da lì, secondo lui, nasce un’escalation che ha al centro una rabbia senza linguaggio.

La trap, dunque, diventa lo specchio di un disagio che viene prima del suono. È la fotografia di un vuoto educativo, dove l’unica voce ad arrivare ai più giovani è quella dell’eccesso.

L’incoerenza adulta: libertà svincolata da responsabilità

Quando l’autore afferma «A 14 anni i ragazzi possono fare tutto. Qualcuno dice: è una conquista. Può darsi, ma ci è sfuggita di mano», non mette in discussione i diritti, ma il modo in cui vengono distribuiti. I giovani – spiega – vengono autorizzati a esperienze da adulti, senza che la società sia pronta a riconoscere loro una piena cittadinanza. È come se si pretendesse da loro autonomia senza dare strumenti. Il risultato è una libertà vuota, più vicina all’abbandono che alla crescita.

Dietro questa visione si intravede una domanda etica: se si concede libertà, chi accompagna? Chi educa? Chi si assume la responsabilità di costruire un linguaggio condiviso con i giovani?

L’AI e il tramonto dell’immaginazione

Il passaggio più cupo dell’intervista riguarda il futuro. «L’intelligenza artificiale si sta mangiando tutto. Un ragazzo vuole fare lo scrittore? Il musicista? Non potrà farlo». La tecnologia, secondo l’autore, non libera energie ma le sostituisce. I mestieri creativi non sono solo lavori, ma modi per dire il mondo, per costruire senso. Se questi spazi si restringono, i giovani non perdono solo un’opportunità economica: perdono l’occasione di riconoscersi.

È una posizione che non si oppone alla tecnologia in sé, ma alla sua narrazione come panacea. L’AI, dice in sostanza, non è neutra: riorganizza le possibilità umane. E se quelle creative vengono marginalizzate, la frustrazione cresce.

Dove si costruiscono le alternative?

La conclusione dell’intervista è una domanda secca: «Quante librerie, quanti teatri, quanti cinema ha Rovigo?» Non è solo un appello al decoro culturale. È un’indicazione precisa: servono luoghi dove si possa imparare a stare insieme in modo non competitivo. L’autore identifica in questi spazi fisici – troppo spesso sacrificati o ignorati – un presidio contro la disgregazione. Luoghi che non promettono successo, ma relazione.

Non si tratta di moralismo culturale, ma di architettura sociale. Costruire relazioni sane non è uno slogan, è un’infrastruttura da progettare.


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