«Credevo di aver chiuso con le storie. Invece a cinquant’anni, dopo lunghe chiacchierate e molto tempo, ho capito cos’è davvero l’amore»
«La scienza dice che per innamorarsi ci vogliono 6 millisecondi. Poi il cervello ti dà altri 6 millisecondi per decidere se restare o scappare. Sei millisecondi per scegliere se metterti veramente in gioco». No, non è Superquark. È Angelo Mellone, scrittore e giornalista, direttore del Day Time della Rai, che al telefono ci spiega il momento cruciale di ogni storia (o non storia) d’amore, una specie di sliding door neuronale sottesa a tutti i voli del cuore.
È una delle scoperte che Angelo Mellone ha fatto rimettendosi a studiare i sentimenti, prima di creare il podcast Ripetizioni d’amore, prodotto da Chora Media, dal 10 novembre disponibile su tutte le piattaforme audio gratuite.
Perché ha deciso di rimettersi a studiare l’amore? L’aveva dimenticato?
«Sono partito dalla mia storia personale. Arrivato a cinquant’anni avevo deciso, o forse volevo autoconvincermi, che con l’amore avevo chiuso. Tre figli, il divorzio, storie finite: basta così. E invece, appena pronunciata, questa profezia è stata smentita. Anche a cinquant’anni può capitare di scoprirsi innamorati per la prima volta».
Quindi voleva saperne di più?
«Certo, anche perché ho fatto un’altra riflessione: ci si sposa sempre meno. E mentre i matrimoni diminuiscono, aumentano i divorzi: la percentuale è quadruplicata dal 1991 al 2018, le separazioni sono aumentate del 65% tra il 1995 e il 2010. Questo è accaduto mentre si rompeva il ponte generazionale nel campo sentimentale. Anche questo l’ho visto nell’esperienza personale con i miei figli. Mentre io avevo un immaginario molto simile a quello dei miei genitori e nonni, perciò era naturale pensare di sposarsi, mettere la testa a posto, riprodursi, con i miei figli c’è un passaggio totalmente differente. Fanno parte di una generazione che vuole mettere tutto in discussione e si trova di fronte a uno stato di confusione totale nell’universo delle emozioni e dei sentimenti. Per loro è tutto “biodegradabile”, fragile, insicuro. Sono nativi digitali e i social network hanno amplificato alcuni fenomeni. Come diceva una canzone di qualche anno fa, se le storie durano come le stories di Instagram, è tutto friabile. Le storie prima si chiudevano a voce, adesso si chiudono bloccando un account».
Che età hanno i suoi figli?
«La più grande fa il primo anno di università, ne ha quasi 20. Il secondo fa il quarto liceo classico, ne ha quasi 17. E poi ho la piccolina che ha appena cominciato la prima elementare e compie 6 anni adesso. Vado dalla generazione Z alla generazione Alfa».
Le parlano d’amore?
«La più grande una volta mi ha detto: “Papà, io vorrei fare quattro figli”. Poi si ferma e fa: “Ma con chi li faccio?”. Oppure mi dice: “Voglio congelare gli ovuli. Siccome voglio avere figli, ma siccome, papà, il lavoro non lo trovo e non trovo il fidanzato, intanto congelo gli ovuli”. Sono più disinvolti rispetto a noi, ma sono anche più disillusi. Mi sembra una generazione che rispetta i nonni più dei genitori. Questo perché, come dice Massimo Ammanniti, ci troviamo tutti di fronte a famiglie adolescenti, dove i genitori faticano a diventare adulti e i figli faticano a crescere. Non avendo più il modello del padre autorevole, i ragazzi stanno cercando faticosamente di costruirsi dei modelli. Io li vedo infinitamente fragili, molto più fragili di noi».
Anche per il sesso?
«Anche per il sesso. Per quelli della mia generazione era tutta fantasia, un mondo che si scopriva un po’ alla volta. Questi, invece, vedono le immagini della sessualità prima di averla e farla. Comunque i primi responsabili della fragilità dei nostri figli siamo noi genitori, perché noi stessi siamo più vulnerabili delle generazioni che ci hanno preceduto».
Lei come cerca di risolvere queste difficoltà?
«Quello che cerco di fare, nei limiti del possibile di un imperfettissimo padre cinquantenne divorziato, è spiegare loro tutto quello che penso possa essere utile nel campo dei sentimenti. Però è capitato di sentirmi in difficoltà, quando mi hanno raccontato la fine delle loro storie. Ti guardano e dicono: “Ma scusa, tu sei il primo ad aver fallito, che vuoi da me? Che consigli mi puoi dare? Tu che esempio sei?”. Sono molto giudicanti e a volte sanno essere crudeli».
Cosa è andato storto, allora, a un certo punto?
«Secondo me ha provocato un sacco di danni fare il processo al principe azzurro, all’amore romantico, al corteggiamento e alle forme tradizionali dei sentimenti. I ragazzi non sono più felici di come eravamo noi da ragazzi. Empiricamente, non ideologicamente, mi pare che noi fossimo più sereni nei rapporti con gli altri perché eravamo meno bulimici. Faccio un esempio: il corteggiamento tra adolescenti durava tantissimo ed era bellissimo. Non era una cosa che, se alla seconda volta non si esce, basta. Erano processi di lungo periodo dove c’era spazio per la fantasia, l’immaginazione, la voglia di stare insieme. Lo scoprirsi, come persone e come corpi, avveniva un po’ alla volta, ed era tutto molto più bello».
Cosa le manca di più della sua adolescenza amorosa?
«I gettoni del telefono, per esempio. Ho anche scritto una poesia che ha il titolo: “L’amore va a gettoni”. Il riagganciare della cornetta se per caso rispondeva sua madre, il veloce squillo al citofono per segnalare il passaggio sotto casa sua, l’appuntamento che dovevi rispettare con puntualità perché non c’era il messaggio per avvertire di un ritardo. A me la cosa che è sempre piaciuta di più è la scrittura, quindi i bigliettini che infilavo nella cartella. I pizzini d’amore».
Un ricordo di allora?
«Proprio ha a che fare con la scrittura. Avevo 15 anni, d’estate avevo conosciuto una ragazza in montagna. La classica fidanzatina estiva. Finita la vacanza, io torno a Taranto, lei a Parma. Ci mandavamo delle lettere. Ricordo ancora un biglietto tutto rosa, pieno di brillantini. Lo aprii con emozione. Lessi. Mi lasciava: “La distanza… resteremo sempre amici…”. Uno stacco terribile tra il prima e il dopo. Qualche anno fa sono andato a sbirciare sui social, l’ho vista in foto: sono invecchiato meglio io. Lo dico per prendermi una piccola rivincita» (ride, ndr).
A proposito di cinquantenni che usano la tecnologia per innamorarsi, amare, conquistare e lasciare: come sono?
«Li comprendo, mi fanno anche tanta tenerezza. Noi non siamo nativi digitali, siamo semplicemente alfabetizzati digitali. Eppure siamo grandi consumatori di social. Per esempio, le applicazioni di dating i ventenni di oggi non le usano. A me, che ci si metta su un’applicazione a cercare qualcuno con cui fare match, come se fossimo tutti quanti articoli di bigiotteria messi in vetrina, non piace. Io non l’ho mai fatto. La verità è che chi lo fa mi sembra sempre più solo. Se il mondo reale non ti piace, vai in quello virtuale, che poi deve diventare reale. E quando succede, spesso si trova solo un’altra solitudine ancora più grande. La domanda è: oggi siamo più felici? Non mi pare, ci dovremmo fermare per capire cosa non sta funzionando».
Per esempio cosa non funziona?
«Mi lascia perplesso l’uso delle etichette, e ne parlo anche nel podcast: ghosting, orbiting, love bombing, gaslighting. Parole per dare un nome a qualsiasi cosa che accade in una relazione, solo per sentirsi più al sicuro. Quando scopri che altri vivono le stesse cose dici: ”Vabbè, mal comune, mezzo gaudio”. Dentro le etichette ci si nascondono la fragilità. Una delle questioni di fondo è che confondiamo l’innamoramento con l’amore. L’innamoramento è lo stato di estasi iniziale dove il partner è perfetto, ma è una fase che dura massimo 3 anni. In questa fase si producono endorfine, dopamina, noradrenalina, per cui non mangi, non dormi, sei sempre contento. L’amore, invece, è una scelta di volontà, di lungo periodo, in cui si attivano ossitoccina e vasopressina».
Queste sembrano proprio informazioni di uno che si è messo a studiare.
«L’ho detto: sono tornato sui banchi. E ho anche scoperto che quando ci si innamora si produce dopamina, ma la serotonina si abbassa. Questo spiega perché, se va tutto bene, si va al settimo cielo, ma se qualcosa scricchiola, per esempio se lei non risponde subito ai messaggi o mette “mi piace” alla foto di un ex, si piomba nell’ansia e nella disperazione: si produce poca serotonina, che tiene in equilibrio».
Che altro dovremmo sapere, prima di innamorarci di qualcuno?
«Che esiste il gene del tradimento, una predisposizione non una determinazione, esattamente come per il gioco d’azzardo. Ma ne parlerò nella prossima serie del podcast».
Adesso che ha studiato, unito pratica e teoria, ci dica: cos’è l’amore?
«Una forma di resistenza dell’umanità. Confondere l’eccitazione costante con una vita ben vissuta è un errore che ho fatto anch’io e che alla fine lascia poco in mano: emozioni di brevissimo periodo e poi una condizione fondamentalmente di infelicità. Viviamo nel tempo del “capitalismo della solitudine”. Le applicazioni di dating sono strumenti per farti credere momentaneamente di non essere più solo, per poi ritrovarti di nuovo solo e ricominciare a cercare. La solitudine è il grande problema oggi».
Lei ha un’idea su come risolverlo?
«In senso orizzontale con una storia stabile o coltivando le amicizie, e in senso verticale con i figli. Fare un figlio oggi è una scelta, non una necessità. Credo che chi sceglie di non fare figli si privi di un pezzo della propria identità. Forse bisognerebbe puntare sulle cose che durano, sulla memoria, sul sacrificarsi per qualcuno. È meglio la gallina domani dell’uovo oggi. Secondo me è un antidoto all’infelicità e una piccola assicurazione sul benessere».
Lei adesso è innamorato?
«Sì».
Com’è accaduto?
«Facendo lunghissime chiacchierate, dandoci tempo. È stata quasi una storia anni Ottanta: molto tempo, molto rispetto anche delle nostre fragilità. Adesso posso dire: “Sì, ho scoperto cos’è l’amore».
Che cosa trova irresistibile nel corteggiamento?
«Il mettersi in gioco. Da un lato si imparano le proprie fragilità ma anche i punti di forza. Poi si deve fare l’enorme sforzo di capire meglio chi è l’altro, se è un’idealizzazione o se è vero. Una fase che dura anche un anno e mezzo. Quando è finita la grande eccitazione inizia la grande storia d’amore, con la prova dell’abitudine, della complicità. Siamo tutti bravi a innamorarci nei grandi weekend, nelle cene roboanti, nelle notti insonni. Amare, però, significa amare nella normalità della vita quotidiana».
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