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Così ebbe voce la modernità tra le pagine della «Civiltà delle macchine»

«L’inverno del 1953, quando misi a fuoco il progetto di “Civiltà delle Macchine”, la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria.» Chi pronuncia queste parole è Leonardo Sinisgalli in un’intervista a Ferdinando Camon del 1965. La rivista, di cui era stato artefice con Giuseppe Eugenio Luraghi, continuava regolarmente a uscire con quel titolo, però c’era stato un avvicendamento nella proprietà – dalla Finmeccanica all’Iri – e a dirigerla adesso non era più lui, ma Francesco D’Arcais. Nonostante ciò, Sinisgalli continuava a considerarla una sua creatura e, nel rivendicarne orgogliosamente la paternità, sottolineava quale fosse la novità della testata e lo spirito che l’aveva animata nei cinque anni sotto la sua guida: colmare l’arretratezza e lo scetticismo che la cultura italiana dimostrava nei confronti della tecnica, il grande vulnus dell’intellettualismo di casa nostra. In effetti, quello di dare voce al racconto della modernità nelle sue forme più eclatanti – il passaggio dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine, appunto – rappresenta un motivo originale sin dal primo numero e dava una precisa direzione ai numeri del bimestrale che, pur assimilandosi alla tipologia di house organ, ambiva a diventare una sofisticata frontiera della cultura politecnica. Aveva un primato da difendere dentro la gravosa questione del rapporto tra cultura umanistica e cultura scientifica, tanto dibattuta in quegli anni e con esiti contrastanti; un primato da spartire con altre testate, non più di tre o quattro: «Rivista Italsider» del 1961, «Il Gatto Selvatico» del 1955, «Pirelli» del 1948, anch’essa scaturita dalla collaborazione del duo Luraghi-Sinisgalli. Tali iniziative obbedivano alla logica della «restituzione capitalistica», per usare un’espressione di Marco Ferrante (autore di Cultura e imprese, un caso italiano, Quodlibet 2025) la bandiera di una certa borghesia industriale che si manifestò «in termini di progettazione sociale e poi di diffusione di cultura e arte». Si tratta di un fenomeno ancora poco studiato, ma di grandi potenzialità interpretative perché consentirebbe di comprendere fatalmente il ruolo di figure chiavi del capitalismo italiano come Gualino, Olivetti, Mattei e dello stesso Luraghi, il vero deus ex machina dell’asse Pirelli-Finmeccanica-Alfa Romeo, che giocò un ruolo manageriale determinante nel campo dei periodici aziendali, da «Pirelli» a «Civiltà delle Macchine» fino al «Quadrifoglio», fondato nel 1967. Ferrante individua le coordinate del discorso che si trovano nella linea di faglia tra adesione convinta al progetto industriale e riflessione sulla tecnologia, due elementi fondamentali che fanno di «Civiltà delle Macchine» una sorta di decalogo della modernità, almeno nel quinquennio sinisgalliano, la stagione più studiata, forse quella con il maggiore tasso di robustezza problematica, di novità estetico-stilistica e, cosa non di poco conto, di influenza a largo raggio sul dibattuto culturale italiano. Assai capillare è il lavoro di Ferrante nell’opera di ricostruzione che dal cuore degli anni Cinquanta conduce il lettore fino ai giorni nostri, accompagnando gli esiti di questo periodico alla luce dei fatti che legano politica ed economia nel periodo successivo al cambio di direzione, dopo il 1958, quando a Sinisgalli succede D’Arcais, un intellettuale organico alla sinistra democristiana, un uomo di partito dunque, motivo per il quale la dimensione politica delle idee acquisisce uno spazio ben più rilevante del tradizionale confronto fra le “due culture”. Meno industria, più sociologia, insomma: questo è il risultato della seconda stagione che dura fino al 1979, quattro volte più lunga rispetto alla precedente, però meno entusiasta nei confronti del mito macchinista e meno radicata nel dibattuto su impresa, economia, lavoro. Sarà probabilmente un segno del cambio di paradigma avvenuto in Italia negli anni Ottanta in fatto di racconto industriale. È ciò che insinua Ferrante quando analizza la terza stagione del periodico, che aggiungerà l’aggettivo “nuova” nel titolo – «Nuova Civiltà delle Macchine», dal 1983 al 2012 – e che in parte prosegue sulla linea tracciata da D’Arcais, anche se con un tasso di accademicità superiore. Il resto è storia recente e riguarda il quinquennio 2019-2024, quando il periodico, ripristinando il vecchio nome, è stato riedito dalla Fondazione Leonardo sotto la guida prima di Peppino Caldarola, poi di Antonio Funiciello, infine dello stesso Ferrante. Sarà forse proprio il nome a conservare intatto il fascino di questa impresa editoriale e Ferrante fa bene a domandarsi se «alludeva alla civiltà costruita sulle macchine? O al tasso di umanesimo che le macchine contemplano? Oppure alla cultura dell’uomo al tempo delle macchine?» Ora che le macchine tradizionali non ci sono più o, meglio, hanno cambiato aspetto, forma, linguaggio; ora che «l’invadente genio digitale minaccia la dimensione umana», sarà ancora più necessario confrontarsi con esse, qualunque esse siano, e capirne il senso anche quando dovessimo accorgerci di averlo smarrito.


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