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Cosa ci può insegnare il Vecchio Cibernetico

Lewis Mumford, sociologo tra i migliori del Novecento, ci ha insegnato a distinguere tra “utopia della fuga” e “utopia della ricostruzione”. La prima somiglia al velleitario costruire castelli in aria, finendo per lasciare il mondo com’è. La seconda, invece, cerca di cambiarlo, preparando strumenti e metodi per definire un migliore futuro. Non è affatto detto che questa utopia del pensiero positivo abbia successo. Ma almeno indica l’orizzonte verso cui camminare, l’impegno, la speranza.

La lezione di Mumford torna in mente leggendo le sapide pagine di Giuseppe Lupo su “Storia d’amore e macchine da scrivere” (Marsilio), un romanzo che ha come protagonista un giovane scienziato sottratto fortunosamente ai rischi della repressione sovietica nella Budapest del 1956, (grazie anche all’avvio d’una grande avventura d’amore) e poi costretto “a giocare una partita a scacchi contro gli imprevisti della storia” con una “odissea” che lo porta a Praga, Amburgo, Milano, Ivrea e Palo Alto e, di stazione in stazione, di ricerca in ricerca, lo fa diventare “il Vecchio Cibernetico”, noto in tutto il mondo, pronto a rivelare una sconvolgente scoperta tecnologica chiamata “Qwerty”, dalle lettere sulla prima riga della tastiera della macchina da scrivere (una Olivetti Lettera 22 è il talismano che si porta dietro, durante tutte le peregrinazioni).

Qwerty è “una macchina informatica che non cerca mani, senza la ruggine della memoria, senza le scorie dei silenzi, luce che diventa parola”: una rivoluzione nelle strutture della comunicazione. La sua radice nasce negli anni delle ricerche fatte a Ivrea, sulla scia delle conoscenze maturate nella stagione di Adriano Olivetti e di Mario Tchou, quando si arriva al prototipo di Elea, il primo personal computer che avrebbe dato all’Italia il ruolo d’avanguardia tecnologica e industriale, se la storia non avesse preso un corso infausto. E nel “romanzo olivettiano” scritto da Lupo (che conferma una brillante inclinazione a coltivare le relazioni tra letteratura e industria in nome dello sviluppo sostenibile e del pensiero civile) le questioni scientifiche e tecnologiche s’intrecciano con i temi etici e sociali. L’attenzione alla “civiltà delle macchine” si ibrida con i valori della “città dell’uomo”. Ed emerge la chiave per affrontare i temi di stringente attualità, con cui anche questo libro ci costringe a fare i conti.

“Prima di usarle, le macchine bisogna comprenderle”, spiega il Vecchio Cibernetico in una faticosa intervista che diventa bilancio anche doloroso di tutta una vita. Rieccola, la “utopia della ricostruzione”. Con tutte le sue ambivalenze.

La diffusione dell’Intelligenza Artificiale, infatti, ci pone di fronte a straordinarie opportunità di ricerca scientifica, produttività e conoscenza ma anche a dilemmi morali, culturali e politici sui limiti della scienza e sugli esiti d’una parola, “progresso”, che nel corso dell’Ottocento e del Novecento, ha sempre avuto connotazioni positive ma che adesso alimenta profonde inquietudini e dubbi sulle “magnifiche sorti e progressive” (aveva proprio ragione Leonardo a diffidare dei fanatici delle novità a ogni costo).


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