Cosa c’è dietro la “grande bomba” di Musk contro Trump

Con un post telegrafico pubblicato su X, Elon Musk ha rilanciato una dichiarazione che ha fatto il giro del mondo: “Il nome di Donald Trump è nei file di Epstein”. Un’affermazione che, pur nella sua semplicità, ha riacceso il dibattito internazionale sul caso del finanziere Jeffrey Epstein e sui suoi legami con le élite politiche e finanziarie. Ma si tratta davvero di una scoperta inedita? I fatti raccontano un’altra storia.
Epstein, condannato per reati sessuali e morto in circostanze controverse nel 2019, era noto per aver coltivato relazioni con alcune delle figure più potenti del pianeta, da Bill Clinton al Principe Andrea d’Inghilterra, passando per celebrità, banchieri, accademici e politici di ogni schieramento. Tra i nomi menzionati nei cosiddetti “Black Books” – le agende personali di Epstein – figura anche quello del presiente americano. Una copia di questi documenti è stata resa pubblica già nel 2015 e successivamente confermata in diverse inchieste, tra cui quelle del New York Times e della BBC.
Oltre ai contatti telefonici, Trump è citato anche nei log dei voli del famigerato “Lolita Express”, il jet privato di Epstein, che portava ospiti nella sua residenza alle Isole Vergini, teatro – secondo numerose testimonianze – di abusi sistematici su minori. Tuttavia, è importante precisare che la presenza del nome nei registri o nelle agende non implica necessariamente un coinvolgimento diretto in attività illecite. Trump stesso ha confermato di conoscere Epstein, ma ha negato qualsiasi implicazione nei crimini commessi dal finanziere.
Il tempismo è interessante. L’intervento di Musk arriva nel pieno del volo di stracci con la Casa Bianca. È anche vero che il tema Epstein è stato strumentalizzato da anni sia dalla destra che dalla sinistra americana, con narrative divergenti. Mentre i conservatori hanno a lungo enfatizzato i legami tra Epstein e Clinton, i progressisti hanno puntato l’attenzione sul silenzio attorno alle eventuali connessioni repubblicane.
Nonostante le promesse, gran parte dei documenti del caso Epstein restano tuttora coperti da segreto, in particolare quelli legati alle indagini federali, alle deposizioni di testimoni e agli accordi extragiudiziari. Durante l’amministrazione Trump, il Dipartimento di Giustizia – sotto la guida dell’ex procuratrice Pam Bondi – aveva promesso maggiore trasparenza, ma l’effettiva desecretazione si è rivelata parziale. Questo ha alimentato sospetti trasversali, persino tra gli stessi sostenitori del movimento MAGA secondo cui l’insabbiamento potrebbe riguardare figure di potere di entrambi gli schieramenti politici. E sferrando infine l’ultimo colpo ripostando il commento di un utente secondo cui “Trump dovrebbe essere sottoposto a impeachment e sostituito da JD Vance“, il patron di Tesla ha posto una pietra tombale sul sodalizio con The Donald.
Nel contesto di questa rottura, il rilancio del nome di Trump in relazione a Epstein non appare più come una semplice provocazione virale, ma come una stilettata politica ben calibrata. Un colpo inferto con il linguaggio che Musk conosce meglio: quello delle allusioni pubbliche ad alto potenziale mediatico, capaci di disorientare e danneggiare senza bisogno di prove né accuse formali. Se il post su X fosse stato rivolto a una figura democratica – come Hillary Clinton o Barack Obama – sarebbe stato interpretato come l’ennesimo attacco di un tycoon libertario al potere liberal.
Il fatto che bersaglio dell’insinuazione sia ora Trump segna un cambio di paradigma: Musk non è più un alleato del trumpismo, ma un concorrente nel campo dell’influenza politica e culturale della destra americana. In questo scenario, il nome di Epstein diventa un grimaldello, non tanto per svelare una verità, quanto per destabilizzare un ex alleato diventato ingombrante.
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