Salute

Cop 30 Brasile, la scommessa è una roadmap sui combustibili fossili

Alla Cop 30 del Brasile sale la tensione per i tempi che stringono. E il presidente André Corrêa do Lago dà un’accelerata puntando a completare “una parte significativa del lavoro” entro mercoledì, 19 novembre. Sul sito della Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici sono state pubblicate le bozze di testo sui temi più caldi di cui a Belém si discute da giorni. Obiettivo: consultare tutti i gruppi negoziali sui punti di frizione per un allineamento, ridefinire le bozze e riuscire ad adottare i testi entro domani sera, quando arriverà anche il presidente Lula. Faranno parte del Belém Political Package, insieme ai dettagli più tecnici da adottare entro la fine della Cop. In una nota di sintesi pubblicata domenica dalla presidenza della Cop si faceva riferimento a “un elevato grado di convergenza e allineamento” tra le 194 Parti, ma finora non è stato trovato l’accordo sulle due grandi questioni, l’uscita dai combustibili fossili e la finanza per l’adattamento climatico dei Paesi più vulnerabili. Su cui, però, qualche progresso è stato fatto. La seconda settimana – quella delle discussioni politiche – è iniziata con il segmento di alto livello e l’arrivo dei ministri. A Belém è arrivato anche ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano, Gilberto Pichetto Fratin.

Pichetto Fratin: “Ambizione sul taglio alle emissioni, ma senza ideologia”

E sull’uscita dai combustibili fossili, il ministro sembra avere le idee chiare: All’assemblea plenaria della Cop, Pichetto Fratin ha ricordato che “l’Italia, insieme all’Unione Europea” è a Belem per continuare a costruire “quel percorso ambizioso di riduzione delle emissioni che riteniamo prioritario per la nostra salute, i nostri territori e la nostra autonomia strategica”. Ma con paletti precisi: “Lo facciamo nella convinzione, confermata dopo gli ultimi passaggi anche a Bruxelles, che per avanzare in questo percorso occorre non replicare approcci ideologici che rischiano di danneggiare i nostri sistemi economici e sociali”. Dallo stesso palco, il ministro britannico dell’Energia e del Net Zero, Ed Miliband, ha spronato invece i colleghi dei governi presenti a non cedere al pessimismo e a non aver “paura” di coloro che negano i cambiamenti climatici o mirano a una politica del rinvio.

Il ‘Belém Package’ e la ‘Mutirão Decision’

Una prima parte del Belém Package, con le decisioni politiche, dunque, dovrebbe essere adottata già mercoledì in seguito al Mutirão, la grande sessione collettiva (ispirata alla tradizione brasiliana) con ministri e capi delegazione per cercare punti di convergenza. Le questioni più tecniche, invece, costituiranno la seconda parte, da approvare entro la fine della Cop. E una delle bozze pubblicate dalla presidenza riguarda proprio la Mutirão Decision, il testo politico che dovrebbe comprendere i quattro temi su cui è ruotato il negoziato finora: la finanza climatica e il ruolo dei donatori, le misure unilaterali sul commercio (leggi guerra della Cina al Cbam europeo), la risposta alla mancanza di ambizione degli Ndc (Piani di riduzione delle emissioni a livello nazionale) e i rapporti biennali sulla trasparenza. Si tratta dei temi su cui alcuni Paesi vogliono dettare condizioni prima di dare il loro sostegno alla grande scommessa della Cop 30.

Le sfide principali: l’uscita dai combustibili fossili

Il punto politico più atteso della settimana, infatti, è certamente un accordo su un percorso, una roadmap credibile, che acceleri la transizione dai combustibili fossili nei prossimi anni, nel rispetto del principio di responsabilità comuni ma differenziate. Un obiettivo che darebbe per la prima volta concretezza all’impegno preso alla Cop di Dubai del 2023 in un testo passato alla storia sulla “transitioning away from fossil fuels” che – già frutto di un compromesso rispetto al “phase out” che il Sud del mondo si aspettava – oggi molti Paesi vorrebbero dimenticare. Quella della roadmap è un’idea della ministra dell’ambiente brasiliana, Marina Silva. Cresce il sostegno alla proposta: 62 Paesi hanno espresso appoggio, ma un accordo resta complesso. Tra i sostenitori ci sono Francia, Danimarca, Regno Unito, Germania, Messico, Kenya, Colombia, Corea del Sud, ma sono contrari i Paesi Arabi e sono da convincere Cina e India. Nella bozza appena pubblicata “ci sono due opzioni. Una è quella di avere un tavola rotonda ministeriale – spiega Luca Bergamaschi, direttore esecutivo e cofondatore del think tank Ecco – che possa dare il via allo sviluppo di percorsi di transizione per superare progressivamente la dipendenza dai combustibili fossili”. Ed è la richiesta formulata da Lula. “La seconda è di stabilire un momento annuale – aggiunge Bergamaschi – per vedere dove si è arrivati sugli Ndc e affrontare il divario emissivo per allinearli all’obiettivo di non superare la soglia di 1,5°, includendo l’accelerazione della transizione dalle fossili”. Sul sostegno dell’Italia alla road map valgono le parole di Pichetto, a margine del suo intervento alla Cop: “Dipende dalla road map. Se prevede a chiusura delle centrali a carbone per tutti al 2035 la sottoscrivo”. In questo contesto, però, la Corea del Sud ha annunciato il suo piano di abbandonare il carbone e di aderire alla Powering Past Coal Alliance, un gruppo di governi e aziende impegnati a eliminarlo gradualmente. Australia e Indonesia, che potrebbero ospitare la Cop 31, sono attualmente i suoi principali mercati. Senza progressi su questo punto, la percezione sarà quella di una Cop fallita sulla questione chiave, anche se più controversa, data la situazione geopolitica.

La finanza sull’adattamento climatico

Il secondo tema centrale di questo vertice è quello del finanziamento per l’adattamento climatico e riguarda, in particolare, l’adozione di una lista di indicatori per valutare i progressi sull’Obiettivo Globale sull’Adattamento, che dovrebbe essere adottato alla Cop 30. Ma gli indicatori arrivati alla Cop 30, tra l’altro dopo un lungo lavoro di tagli e cuci, sono comunque un centinaio. Troppi. Un altro problema riguarda il finanziamento stesso. Come certificato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) attraverso l’Adaptation Gap Report 2025, a fronte di un fabbisogno per l’adattamento dei Paesi in via di sviluppo di oltre 310 miliardi di dollari all’anno entro il 2035, questa cifra è 12 volte superiore agli attuali flussi. I Paesi in via di sviluppo chiedono che il pacchetto finale contribuisca a ristabilire un equilibrio tra finanza per l’adattamento, mitigazione e perdite e danni all’interno del nuovo Obiettivo Globale Collettivo di Finanziamento di 300 miliardi di dollari all’anno, per poi mobilitarne 1300 l’anno entro il 2035, con un impegno ad ampliare significativamente il sostegno. Tra le proposte sul tavolo, sostenuta da tutti i Paesi in via di sviluppo, c’è quella di triplicare la finanza per l’adattamento entro il 2030, fino ad almeno 120 miliardi di dollari l’anno.

Le proposte e i progressi

Ma da cosa dipenderà il fatto di trovare o meno l’accordo? La partita si gioca anche su tavoli, ossa su quattro temi diventati centrali nelle discussioni più accese. Uno di questi è l’Articolo 9.1 dell’Accordo di Parigi, che stabilisce che i Paesi sviluppati devono fornire risorse ai Paesi in via di sviluppo e invita anche altri Paesi a contribuire volontariamente. Da tempo si chiede più chiarezza su chi debbano essere i Paesi donatori. “I Paesi sviluppati hanno segnalato disponibilità a migliorare la prevedibilità e il volume della finanza – racconta Ecco – includendo la possibilità di promesse indirizzate a contribuire all’obiettivo di 300 miliardi di dollari all’anno del nuovo Obiettivo Globale Collettivo di Finanziamento. Durante il dialogo con i contributori, nel frattempo, il Fondo per l’Adattamento ha raccolto 133 milioni di dollari in nuovi impegni per sostenere i Paesi più vulnerabili. “Tra i contributori – racconta Ecco – ci sono Germania, Spagna, Svezia, Irlanda, Lussemburgo, Svizzera, la Regione Vallonia del Belgio, Corea del Sud e Islanda. Dall’Italia non arrivano fondi dal 2021”.

Braccio di ferro su Cbam ed Ndc

Uno dei dossier più divisivi nei negoziati (anche questo al centro di pretese e condizioni poste da alcuni Stati) riguarda le Misure commerciali unilaterali, strumenti di politica commerciale adottati da un singolo Paese o gruppo di Paesi per introdurre criteri climatici negli scambi internazionali. E la ragione dei contrasti si intuisce da quello che è l’esempio più noto: la tassa di importazione fissata dall’Unione Europea o Carbon border adjustment mechanism (Cbam), che applica un prezzo sul carbonio alle importazioni di prodotti ad alta intensità emissiva (Leggi l’approfondimento). La Cina e molti Paesi in via di sviluppo temono che possano trasformarsi in barriere commerciali, di fatto penalizzando le loro economie e la loro produzione industriale. Altri, invece, le considerano strumenti necessari per evitare la rilocalizzazione delle emissioni e garantire condizioni di concorrenza più eque. Un altro punto di scontro sono gli Ndc, che i Paesi devono presentare ogni cinque anni sotto l’Accordo di Parigi. Nel 2025 i Paesi dovevano presentare il terzo ciclo di Piani con orizzonte temporale 2035. Lo hanno fatto quasi due terzi degli Stati, ma l’ambizione non è ancora sufficiente per limitare il riscaldamento globale entro 1,5 gradi. E si discute molto di cosa fare per rispondere a questo deficit, mentre l’Unep osserva che le emissioni globali di metano sono ancora in aumento e, sebbene l’attuale serie di Ndc e Piani d’Azione possa portare a una riduzione dell’8% entro il 2030, i paesi devono fare molto di più per rispettare l’impegno preso di ridurre le emissioni del 30% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020.


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