Società

Concita De Gregorio: «La malattia mi ha insegnato a dare un altro valore al tempo e a riconoscere il senso profondo della cura e dell’amore»

Per anni ha raccontato la realtà: la cronaca, la politica, i fatti del mondo. Ma oggi, dopo una vita vissuta nel tempo degli altri, Concita De Gregorio si concede il suo. Di madre in figlia, uscito oggi per Feltrinelli, è il suo primo romanzo. Ma, visto che «la realtà è sempre ispiratrice», anche questo suo ultimo libro parte da vicende davvero accadute. Prende le mosse da una storia familiare: la sua.

Una nonna, una madre e una figlia si ritrovano. Marilù vive isolata in cima a un’isola, lontana da tutto e da tutti. Donna libera e anticonformista, ha cresciuto sua figlia Angela con un’indipendenza che quest’ultima ha vissuto come una forma di trascuratezza. Quando Angela le affida per tre mesi la figlia adolescente, Adelaide, iperconnessa ma fragile, emergono segreti familiari e antiche storie. Sono diverse generazioni di donne, tutte in cerca di comprensione, tra amore, silenzi e vecchie ferite. Sono personaggi inventati, ma ognuna porta con sé un frammento di realtà.

Da tempo Concita De Gregorio sentiva il desiderio di scrivere un libro che parlasse della cura e, in particolare, della sua famiglia materna, ed è arrivato il momento di farlo.

Perché la parte materna?
«Ho passato anni a cercare i cognomi delle mie antenate, a ricostruire la linea materna. Ma già alla terza generazione, la storia delle madri si perde: seguiamo sempre quella paterna. Eppure è dalla linea femminile che ereditiamo molto: caratteri, tratti, inclinazioni. È come un Dna affettivo e invisibile. Spesso ripetiamo inconsapevolmente le vite di chi ci ha preceduto».

E perché ha scelto proprio questo momento per scrivere il suo romanzo?
«Ho vissuto sempre lavorando tantissimo. Nel 2022 mi hanno trovato un tumore al seno, in uno stadio molto avanzato: mi sono fermata perché il mio corpo si era guastato e mi sono trovata di fronte alla possibilità che non si aggiustasse più. Era del tutto imprevedibile: viaggiavo ai 200 all’ora e, all’improvviso, la macchina si è fermata. Ho dovuto spegnere tutto e mettere al centro dei miei sforzi il desiderio di restare in vita per me e per i miei figli. Da allora vivo alla giornata e il valore e il senso del tempo sono cambiati. È cambiato il mio modo di definire le priorità: non ho più la frenesia di essere all’altezza delle aspettative e di rispondere a ogni richiesta: sto mettendo al centro me stessa e la mia storia. Da giovane ero una vecchia, oberata da senso del dovere e molto saggia. Adesso posso fare il contrario, prendermi la mia libertà».

Chi sono Adelaide, Angela e Marilù?
«Adelaide, voce narrante, è una adolescente di oggi. L’ultimo dei miei figli ha la sua età e conosco bene questi ragazzi: li sento e ascolto. Dentro Adelaide c’è molto di loro, ma anche molto di me. Marilù invece è una ragazza degli anni Settanta, tempo magnifico e terribile, in cui sono cresciute le mie sorelle e le mie zie. Angela è figlia degli anni Novanta, dell’edonismo e dell’ansia da prestazione, e vive una tensione costante fra la volontà di fare il bene della figlia e il rischio di soffocarla».

Nel romanzo si parla molto di cura. Ma non in modo idealizzato.
«Tutti gli affetti, anche l’amore, sono potenzialmente velenosi. La cura può guarire o avvelenare, dipende dal “quanto” e dal “quando”. Tutte le medicine, come le erbe, possono essere rimedi o veleni. E lo stesso vale per i gesti dell’amore. È un equilibrio costante, mai definitivo. Non esiste colpa, però, e spero che questo si senta in modo forte nel libro. Le mie protagoniste fanno del loro meglio, eppure possono sbagliare. Ma ce la mettono tutta».


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