Coldplay, l’album Moon Music: la recensione
Quella dei Coldplay è una storia interrotta solo per certi versi. C’è anche da capirli, cioè. Da quando la cornice si è spostata ‒ da quando, cioè, il rock ha smesso di essere l’unità di misura di tutto, con i Grandi Vecchi morsi alle caviglie dai nuovi, rapper soprattutto e poi piattaforme di streaming e il resto ‒ ed è diventato chiaro a tutti che non sarebbero potuti diventare «i nuovi Radiohead», come da augurio agli esordi con Yellow (2000), Chris Martin e soci hanno lasciato la musica alternativa, che pure gli dava parecchie soddisfazioni ma sempre meglio il posto fisso, per darsi al pop, assecondando una voglia di leggerezza e di comunicare a tutti ‒ e qui, da paragoni, sono più che altro «i nuovi U2», ma senza l’attitudine riottosa di Bono e The Edge ‒ che è anche scelta di vita. Chi glielo faceva fare? Non avevano il tempo e forse neanche i mezzi per percorrere un’altra strada, restare e avere lo stesso impatto sul pubblico.
Certo, questo non significa che non debbano più renderne conto, per quanto la svolta sia assodata da (pochi) passi indietro e tanti passi avanti già da Mylo Xyloto (2011), dove duettarono addirittura con Rihanna. Lo dimostra lo stesso Martin, che scherzando sul nuovo Moon Music, decimo album della carriera, in uscita, ha detto che ne avranno per altri due, di cui un musical, e basta: «Così i critici saranno contenti». E poi perché proprio Moon Music, con l’essere un gemello del precedente Music of the Spheres (2021), in qualche modo raddoppia il loro nuovo status, lo certifica, rilanciandone la proposta ancora più esplicitamente: un pop «cosmico» nei suoni e nei riferimenti, che alza gli occhi al cielo in cerca di risposte (le trova, sì e no: ma siamo uomini e non caporali) più che di una fuga, e se la batte con ritornelli micidiali e la produzione sempre di Max Martin, tra gli altri già in 1989 di Taylor Swift, tanto per dare qualche coordinata. Altro che rock. L’ottimismo, parafrasando un vecchio spot dei nostri lidi, è il profumo del gruppo.
Eppure i Coldplay sono un gruppo proteso a questa nuova dimensione, sì, ma che non può scordarsi il passato, banalmente perché i live ‒ dove conducono una politica a impatto zero e che rappresentano il vero campo in cui vincono, con show spettacolari e richiestissimi, tutti ottimismo, arcobaleni e buoni sentimenti ‒ si reggono tanto sugli inediti quanto sui classici, da Yellow a Fix you. Pezzi, cioè, che sembrano provenire da un altro mondo rispetto agli episodi audaci di Moon Music, dal funk in salsa house di Aeterna al rap con ospite Little Simz di We pray, viene da sé i meno riusciti del lotto, da far impallidire ogni fan storico se solo la pillola non fosse già stata bella che indorata dalle varie collaborazioni con Beyoncé e i BTS. L’identità stessa , allora, è un lavoro di equilibrismo da aggettivi terribili («democristiani» no, ma «ecumenici», per i toni, è lecito). Ma questo, paradossalmente, li ha messi davanti anche a una sfida affascinante: essere l’unica band pop-rock di oggi rilevante e davvero influente, accontentando tutti (nei limiti). Guadatevi intorno: chi c’è? Forse gli Imagine Dragons, che non hanno però la classe di Martin seduto al pianoforte ‒ e infatti perfino qui, nonostante tutto, le migliori sono le ballate come All my love e One world, quelle che saprebbe scrivere sempre, e giù a lacrimoni e nostalgia.
E soprattutto, sorpresa!, i Coldplay vincono questa sfida con sé e con il mondo. Per carità, scordiamoci certi fasti degli esordi, ma appurato che siamo in un’epoca in cui un disco in sé conta poco, specie per band che hanno esordito 25 anni fa come questa, ma rappresenta solo un punto di raccordo tra i tour, per portare avanti una narrazione più larga, ecco, in questa prospettiva i quattro hanno un senso, qui e ora. Non è poco. E questo grazie a una musica che, al netto di testacoda e pacchianerie assortite (la voce in stile stazione spaziale internazionale che inaugura tutto, mah), sta fuori da tempo e mode e vive gli aggiornamenti di sistema non come scorciatoie, ma sentieri per arrivare a più persone. Ci mettono quel minimo di mestiere, ma soprattutto un’innata buonafede che li rende credibili, e per esempio li porta di continuo a sensibilizzare sulla questione ambientale, se non fosse chiaro rimettendoci soldi di tasca propria.
È come se, ecco, al ruolo di popstar che hanno voluto, cercato e costruito da anni associassero una responsabilità collettiva. E Moon Music incarna questa nuova fase, ne è un ambasciatore, con i suoi continui rimandi alle galassie e ai suoni dello spazio che sono un invito a prendersi cura della Terra, o perlomeno a ricalibrare le priorità e renderci conto di quanto siamo piccoli (e, ok, dannosi). Chiaramente è un’utopia, qualche riferimento è messo dentro con il calzascarpe (Jupiter, Giove, per una ragazza bella e lontana che quindi ha il nome di un pianeta) e il primo motore immobile è ovviamente l’amore. Ergo, il rischio è che un pop così senza macchie suoni scontato, troppo teneri. Ma c’è qualcosa che li mette oltre all’ottimismo sempre e per sempre che pure uno gli assocerebbe, che sia l’attivismo in prima persona o la classe che, quando ne hanno memoria, gli permette di mettere in piedi brani come il singolone eelslikeimfallinginlove, un testo sovrapponibile a Like a Virgin di Madonna e però senza malizia; in amore, s’intende, è una continua prima volta, ma più che da spaventarsi, nel mondo dei Coldplay, c’è da meravigliarsi (e così del creato tutto).
E poco importa che vent’anni fa non l’avrebbero fatta così semplice, che le canzoni di una volta non avevano soluzioni a portata di mano e che la vita, soprattutto, non le dà. C’è da fare un mondo migliore, pare dire Martin, e Moon Music assicura che ciascuno può fare la propria parte anche partendo dai piccoli gesti. Può esistere, insomma, una rivoluzione gentile, una musica che parli a tutti e lo faccia con i buoni sentimenti, ma senza svenderli al mercato. Se ci stanno trasmettendo un’illusione, è solo questa: non sta andando tutto bene e questo non è un modo per lavarsi la coscienza; ma se ci diamo una mossa, magari, andrà tutto bene. Loro sembrano crederci, ma se anche fosse davvero tutto una brutta deriva, se anche il confronto con il passato ‒ su cui loro, seguendo questa corrente ascensionale, invitano a soprassedere ‒ ci raccontasse solo di un gruppo che ha mandato gli inizi per il solito pop e i soliti soldi, be’, verrebbe da dire che una scia di buono, alla fine, l’hanno lasciata lo stesso.
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